mercoledì 29 aprile 2009

Senegal 7 - Modou-Lò!!



E infatti siiii!!!! Sblocco totale!!!!
Allo stadio ci siamo stati davvero: al grande Stadio Demba Diop, per Modou-Lò “Le Roc” contro Issa Pouye “Le Caiman de Thiaroye sur Mer”, ovverossia Ercole contro Polifemo, ovverossia un mitico incontro di lotta senegalese. Adesso io sono una super fan di Modou-Lò/ Le Roc de Rock Energy che ha vinto contro il Caimano, e compro sempre “L’AMB, le quotidien des Arènes Sénégalaises” , l'equivalente in Senegal della Gazzetta dello Sport nei periodi caldi di campionato.
Come spiegarvi il grandioso spettacolo della lotta senegalese, e dei senegalesi allo stadio per vedere la lotta senegalese, e dei toubab italiani allo stadio per vedere la lotta senegalese e i senegalesi che guardano la lotta senegalese?
Il mondo è complicato, e anche questo lo è. Ma bellissimo!!

Innanzitutto le cose più ovvie: i lottatori sono dei giganti, che si sfidano a buttarsi a terra, tipo lotta greco romana, ma nella quale sono ammessi anche i pugni; questo per esigenze di business, perchè l'antica lotta senegalese non prevedeva i pugni. Siccome però gli incontri andavano avanti delle ore, o delle notti intere, allora hanno pensato che si vendeva meglio se la si faceva finita un po' prima. Quindi ok ai pugni, e adesso gli incontri durano anche solo pochi secondi (che se ti tira un cartone un toro di 120 kili che vuole vincere non è che si vada avanti di lungo). Quello che abbiamo visto noi è durato 2 minuti e 35, e la gente era davvero arrabbiata che cincischiassero in questo modo. Incontri famosi sono durati 18 secondi.

Della lotta senegalese sono state fatte bellissime foto: in particolar modo Beatrice Jourdan, ungherese che vive a Dakar ne ha fatte di splendide a questo indirizzo:
http://www.flickr.com/photos/lilion/sets/72157614846704104/show/.
Dovete assolutamente vederle.

Devo dire che mi è presa una grande passione... Aldo di questo si arrabbia un po', forse ha ragione, ma mi colpisce l'intensità con cui tutti qui, i lottatori e la gente, vivono questo sport (lui dice tutte balle che mi vede gli occhi fuori dalle orbite quando guardo le foto dei tipi in ciripà...).

La lotta senegalese è uno sport in senso stretto solo nell'aspetto più esteriore (due enormi giganti super palestrati che si sfidano a mani nude in un arena di sabbia); poichè è una grande disciplina globale, che affianca nella stessa misura allenamento fisico e preghiera (qui Aldo alza gli occhi al cielo, mi dice di vergognarmi e se ne va).

Perchè i lottatori sono tutti coperti di gri-gri, ovverossia amuleti e talismani di vario tipo, che vengono preparati dal marabù della squadra (decisamente più importante dell'allenatore), e che segue la preparazione spirituale dell'atleta: nella lotta l'atleta non sfida l'avversario, ma il proprio spirito. E questo aspetto, quando le lotte durano ore sotto i baobab e il sole dei villaggi, diventa uno zen da fare proprio e interiorizzare. Allo stadio rimane un grande spettacolo collettivo, che si concretizza nel fatto che si sta sugli spalti 3 ore per un incontro di meno di un minuto, poichè si seguono tutti i preparativi rituali e "magici" che precedono la lotta, come si seguirebbero i rigori ad una partita dei mondiali. Ed è questo l'aspetto più incredibile dello spettacolo, anche di quello modernizzato e super pagato negli stadi.



A Dakar tutti i ragazzi delle periferie sognano di diventare lottatori, come da noi i ragazzini di Napoli sognavano di diventare Maradona. Questo significa che: tutte le spiagge della città sono delle gigantesche ed affollatissime polisportive, dove tutti i giorni si allenano centinaia e centinaia di ragazzi e uomini, super atletici e salutisti. E per ricaduta che portare i bambini in spiaggia dopo la scuola è f-a-v-o-l-o-s-o, e che Aldo oramai minaccia il divorzio (qui il tipico senegalese è atletico comunque, figurarsi poi quelli che fanno sport seriamente...ehehehehehe, per tutte le mamme e le amiche in ascolto).
Ma i lottatori sono anche, in maniera forse poco comprensibile per noi, dei modelli da seguire non solo dal punto di vista fisico, ma anche religioso e spirituale: perchè non è il lottatore che vince, ma Dio che indica che è colui che si merita di vincere.
Lunedì ho comprato il giornale come ogni brava fan della lotta e mi ha lasciato allibita il tenore dell'intervista al mio mito vincitore Modou-Lò, che fondamentalmente parlava solo di Dio, e di come lui si rimetta completamente alla sua volontà. Lui si allena 12 ore al giorno, sicuramente prende anche degli anabolizzanti per essere quello che è a 22 anni, ma è Dio che lo guida, lo premia e lo punisce (ma questo poco, perché siamo a quattordici incontri consecutivi vinti).

Modou-Lò è un vicino di casa di Eva, abita a Parcelles (altro quartiere periferico e molto popolare di Dakar, fucina di lottatori), e si allena anche nella stesso club dove Franceschino va al nido...pare strano ma è un complesso polivalente, ecco, mettiamola cosi. Eva mi ha detto che un giorno gli ha presentato Franceschino, che con la sua faccia di tolla, per niente preoccupato, alla richiesta di salutarlo ha detto "NO!": sarà un toro anche Franceschinooooo!!! Io pure l'ho incontrato, e devo dire che senza preavviso mi ha fatto paura: il colosso di Rodi col sorriso. Io a sua richiesta lo avrei salutato senza batter ciglio.

Dopo vari racconti di Eva e di Mamadù, il guardiano bambara di casa nostra, che si gloria di aver fatto parte nel 2004 della squadra di supporto tifo-musica-animazione di Mohammed Ndao “Tison”, il lottatore più amato da sempre in Senegal, un istituzione mai superata (diciamo tipo Pelè, o Dino Zoff), un giorno Eva, dall'alto anche lei dei suoi 120 kg ha sentenziato, a gambe larghe nel soggiorno e con poche parole "Il 26 c'e un incontro importante allo stadio: ci dovete andare".
Noi non aspettavamo altro, e comunque ciò che dice Eva noi lo facciamo sempre (mai discutere con uno più grosso di te). Quindi è scattata la corsa ai biglietti: che poi corsa non è, perchè quà correre non si corre. Do i soldi a Mamadù, conveniamo che anche lui venga con noi (giusto per non farci travolgere, derubare, pestare o ingannare dei primi 10 secondi dell'uscita) e per qualche giorno rimane seduto sul marciapiede. “Ma mi avevi detto che è difficile, che bisogna fare code, che si deve andare a Libertè 2 (il quartiere dello stadio), che forse conosci l’amico dell’amico dell’amico…”; Mamadù impassibile mi diceva sempre che bisognava aspettare la radio (?); poi quando noi davamo la cosa per persa (sabato sera), domenica mattina i tre biglietti sono apparsi!

Si va, si va, si va!!!!!! Ottimo a che ora inizia? Non esiste l’ora di inizio, uno va diciamo indicativamente dopo la preghiera del mezzogiorno, e poi entro il tramonto si vede l’incontro. Noi optiamo quindi per partire da casa alle 15.30. Eva arriva puntuale per tenerci i bambini alle 16.30, lenta sulla strada col legnetto in bocca (“Ma perché non rispondevi al cellulare?!” “Perché sono già arrivata”), io già convinta di essermi persa il grosso della kermesse. Ma lei abita di fianco a Modu Lo, quindi ha partecipato credo all’organizzazione dell’addobbo con bandiere della “contrada” . Finalmente si parte, Mamadù è solenne, siede davanti nel taxi e ci tratta come un papà coi bambini. A me va bene: il casino è bello grosso e senegalese!!!!!!! Napoli con sabbia e montoni all’ultima di campionato, camion che scaricano tifosi appesi in 180, con tamburi, sonagli, magliette da tifosi (se sei un vero tifoso te la regala Modou-Lò, come Tison ha fatto con Mamadù, che ogni tanto la mostra come una reliquia a Francesco, suo figlio putativo).

Entrare allo stadio è come credo entrare in tutti gli stadi, ma molto più incasinato; 5.000 franchi posti all’ombra, 1.000 franchi quelli al sole. Gli ultras stanno tutti al sole, noi all’ombra, di fronte (veramente l’ombra arriva un ora dopo, dovrebbero essere posti coperti, ma della copertura c’e’ solo l’impalcatura rovente al sole), stadio fitto di ogni tipo di Senegalese – quasi tutti uomini, giovani e vecchi, che masticano legnetti, sgranocchiano arachidi, e bevono succhi locali, che vengono venduti in sacchetti di plastica lanciati da almeno 20 mt di distanza dai venditori che si fanno largo tra la folla. C’e’ un buon profumo di Caffè Touba, il caffè insaporito col jarr, una spezia aromatica e leggermente pepata, e il clima è caldo in tutti i sensi. Quindi troviamo posto, e ci prepariamo all’inizio, perché chiaramente non è ancora iniziato, si sta tutti aspettando, mi pare evidente.
Nel campo il mondo: al centro l’arena di sabbia coi sacchi di riso (per i lottatori che intrattengono prima del combattimento principale), e gente che gira in lungo in largo, gruppi che suonano, polizia ed esercito con i fucili (mmmm, mica bello a vedersi…), gruppi di omoni in tuta che trasportano tonnellate di grossi bottiglioni e sacchi da un lato all’altro del campo, altri gruppi che ogni tanto si mettono a ballare, uno speaker che dice chissà cosa, nella confusione sovrana, e a me sembra che ci sia tanta gente nel campo quanta sugli spalti (per altro lo stadio è pienissimo). Nell’attesa dell’inizio anche io compro arachidi, e sgranocchio, chiacchieriamo con Mamadù, mi rendo conto che siamo letteralmente circondati dai fans di Modou-Lò (tendenzialmente circa della sua taglia - quindi la decisione di tifare per lui è confermata) magliette, quadri, ogni tanto qualcuno urla e scattano delle risse anche sugli spalti. Io mi alzo e scappo un paio di volte, Aldo ride e dice che sono fifona, ma sono tutti quattro volte me, e lui la sensazione di essere l’unica bianca nello stadio non ce l’ha. Però tutte le volte che qualcuno fa casino, e comincia il maremoto, sembra come una catarsi: il malcapitato, che chiaramente ha fatto qualcosa di sbagliato, tipo lanciare un insulto, si incazza con tutti, tutti si saltano addosso, poi il malcapitato chiede scusa e tutti si risiedono. Le risse scoppiano anche i campo, ed a un certo punto la polizia entra con le moto e fa una sorta di parata lentissima e osannata da tutti.
Capisco quindi, dopo più di un ora di attesa, che non stiamo aspettando lo spettacolo, ma che questo E’ lo spettacolo! Si va allo stadio per assistere a tutti i preparativi rituali e magici che precedono un combattimento, accompagnati, per ciascuna “scuderia” di atleti, dai propri percussionisti di djembè, e tutti sono infiammatissimi, e il tifo è come durante le nostre partite.
Con l’aiuto di Mamadù, e seguendo gli umori della folla, comincio a capire quello che vedo: molto lentamente, una alla volta, sono entrate le quadre degli atleti, danzando in modo pesante da guerrieri, e la gente applaude la musica, un certo tipo di passo piuttosto che un altro, commenta le abilità, i gesti guasconi, si esalta e urla quando il proprio lottatore passa sotto i propri spalti; la ola scattata allo stadio quando sono entrate le moto era perché si trattava di Modou-Lò che guidava la moto di suo cugino poliziotto (tutti sanno tutto, è come un grande paese, dove gli eroi sono ancora vicini di casa della gente comune); i lottatori inventano i modi più spettacolari per fare il proprio ingresso: una corsa velocissima, una grande danza che sembra quella della guerra, girano avanti ed indietro per il campo, e mostrano che cosa la squadra ha con se: ovverosia tonnellate di gri-gri!
Per almeno due ore, intercalando il tutto con corse, risse separate da esercito e polizia anche in campo, danze – mentre si svolgono altri due o tre combattimenti minori - i lottatori lentamente si spogliano, rimangono in ciripà e continuamente si versano in testa e sul corpo il contenuto dei misteriosi bottiglioni: acqua, latte, olio, e poi sabbia, e ancora liquidi rossi, o gialli: tutti preparati dal marabù per propiziare la vittoria.

Si legano e slegano fascie, stringhe, cuoio, attorno a braccia, gambe, corpo; tengono in bocca delle particolari pipe colorate, brandiscono code di zebù o corna di montoni, tutto in un misto davvero strano di modernità e mistero, rito e mercato. E la gente commenta: l’ordine in cui vengono versate le bottiglie, la tal danza dopo la rottura della giara rossa, il corno brandito verso l’avversario, i segni sulla sabbia che il marabù ordina al lottatore di disegnare. Anzi, i marabù non ci sono, sono a casa; allo stadio con la squadra vengono i melangères, diciamo gli specialisti che conoscono perfettamente l’ordine con il quale le almeno quaranta bottiglie diverse da 10 litri devono essere versate addosso. Molte sono piene anche di pezzettini di carta colorata sciolta: sono le preghiere, i vaticini, le indicazioni che i marabù hanno scritto sui fogli, strappato in mille piccoli pezzettini e sciolto nei liquidi. Quindi i lottatori dopo poco sono coperti di latte, sabbia, pezzetti di carta, e poi olio, e ancora acqua, e qualcosa di rosso, e poi ancora carta, e poi corse, danza, e ancora bottiglie, e tutti che tifano, urlano, ballano.
Mi è piaciuto moltissimo.

Alla fine, quando il sole è calato, i lottatori sono entrati nel cerchio di sabbia (avvicinamento lunghissimo), lo stadio oramai stracolmo ha aperto i cancelli ed è rotolata dentro una folla di spettatori non paganti che premeva da fuori. Per un venti minuti buoni a me è sembrato che i due arbitri continuassero a dare il fischio d’inizio senza che nessuna delle centinaia di persone presenti nel campo li cagasse di striscio, e poi all’improvviso i due lottatori si sono messi di fronte e hanno cominciato a guardarsi. Silenzio totale nello stadio (diciamo, silenzio senegalese, gran casino ma chiaramente del tipo: questo è silenzio): per almeno un minuto e mezzo le Roc e le Caiman non hanno fatto altro che far girare le braccia in ampi cerchi, dall’alto al basso, sfiorandosi le mani, studiandosi (gente infastidita, troppo lungo; ma uno dei due è un tattico, e forse tutti e due i marabù avevano detto di non colpire per primo; o forse il marabù più forte aveva reso impossibile all’altro di cominciare, o forse uno dei due vedeva nebbia davanti a se, o il corpo dell’altro era rovente come fuoco. Queste tutte cose che i lottatori poi riferiscono, e che la gente commenta e si racconta a lungo).


Poi in pochi attimi Le Roc affonda un pugno, si sbilancia, Le Caiman lo afferra per la vita e lo piega, tensione immobile e violentissima fra i due, finchè Modou-Lò Le Roc scarica una serie di pugni (due? Tre? )velocissimi e violenti, si rialza con un colpo di reni, torce l’avversario e lo getta a terra: woooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!!!
Boato! Modu-Lò Parte a correre…e noi come allo sparo del via letteralmente fuggiamo dallo stadio: tutto il mondo è impazzito!!!!! Tutti urlano e saltano, e io ho questo ricordo ridicolo ed inquietante di correre nell’imbrunire, nella polvere e nel casino di un grande boulevard africano tutto distrutto, annebbiato dalla polvere e dagli onnipresenti sacchetti neri di plastica che volano dappertutto, inseguiti da migliaia di persone che impazzite ruggiscono e urlano, e la sensazione che non hai chiaro se scappi o corri, ma che è meglio andar veloci. L’emozione in gola e l’adrenalina a mille, con Aldo che ride strano, e mi tiene per la mano, e tutto che si allontana, mentre per fortuna troviamo un taxi che ci carica al volo e scappa via pure lui!!! Dal lunotto tutto crepato ed impolverato vediamo nei lampioni sfuocati la gente che corre e grida, che non insegue noi, ma la propria energia, la radio del taxista dice che uno dei due lottatori ha i denti rotti, Mamadù racconta concitato l’incontro in wolof, e Modoù-Lò viene portato in trionfo fino a Parcelles.

Eva ci ha poi raccontato che ha fatto fatica a tornare a casa, che il quartiere era impazzito, che tutti urlavano e cantavano e ballavano, e si suonava ovunque, e che dopo mezzanotte la polizia ha letteralmente chiuso in casa tutti quanti.

Io, convinta di essere scampata alla morte ho avuto l’adrenalina a mille tutta notte, e facevo i cori da stadio a letto, “Modu-lò!!! – Modu-Lò!!! – Modu-Lò!!!”. Che poi ho trasformati in “Zigu-lì zigu-lì bonna-nuit-Zigu-lì” per Aldo, grande lottatore di questa famiglia, che ha cercato di soffocarmi col cuscino.


martedì 21 aprile 2009

Senegal 6 - Concerto col botto


A scanso di equivoci diamo per assodato alcune questioni: qui stiamo meglio di quanto non stessimo in Italia, cosa possibile poiché i bianchi espatriati in Africa fanno i leoni nel paese delle pecore. Si emigra per andare a star meglio, sia che lo si faccia verso i paesi ricchi, che verso quelli poveri (salvo rari esempi difficili da emulare). Con quanto ne consegue, in termini di riflessioni, giudizi, contraddizioni.

E’ stato per me molto più lineare ed esotico frequentare i campi nomadi a Bologna, negli anni dal ’91 in poi; non sono qui perché innamorata dell’Africa, dei sorrisi, della gente semplice. In una metropoli del sud del mondo c’e ben poco dell’africa favoleggiata da viaggiatori superficiali, o anche di quell’africa rurale e sostenibile che ho conosciuto nella nostra permanenza nel Kenya occidentale. Sono qui perché c’e’ un tarlo strano: un misto di egoismo, curiosità, e convinzione che ci sia bisogno di veder e sentire altro, se si ha il lusso di poterlo fare. Perché può avere un senso che ricade anche fuori di se. Scriveva il caustico Racine: “Il viaggio è una vertigine per cretini” (una cosa del genere comunque). Sono d’accordo solo in parte.


C’è un chilometro che mi piace molto a Dakar: è la zona di Ouakam, dove c’e’ il mercato, e la strada e la gente sono vive e colorate. Penso ce ne siano moltissimi di questi chilometri a Dakar, ma questo è vicino a casa, e attraversarlo mi immerge in un quotidiano diverso dal mio, e che mi incuriosisce ed attrae.

E’ allegro, sono allegri i colori, è un mercato dove si vende e si trasporta di tutto, proprio in mezzo alle case e alla vita della gente. Ci sono quindi tutte le donne coloratissime, e pile di uova, e sacchi di spezie e di riso, e di frutti di baobab, e pesce e verdure anche queste di tutti i colori, e i sacchi di fiori di ibisco essiccati per fare il “bissap” – la bevanda rinfrescante e dolcissima. E carne tagliata in mille forme per tutti i palati, e stoffe che occhieggiano non le sfumature – che in africa ce n’è poche di sfumature– ma le esplosioni dei rossi, degli arancio, dei verdoni, dei blu e dei viola.

E il giallo dei taxi, il nero delle pile di carbone, e l’ocra della sabbia dappertutto.


E’ che questa mitragliata di colori io non riesco a ricondurla ad unità. Sarà un vizio della mia testa razional-occidentale, sarà l’approccio che abbiamo noi europei con le cose: analisi-tesi-antitesi-sintesi, ma non ne vengo a capo. Sicuramente c’e’ un vizio di fondo nell’essere noi qui; è tanto lampante, quanto certo che comunque porterà frutto. Ma quale frutto...Inshallah!


Mi è venuta in mente un ottima immagine che da il senso di come mi sento: è come stare a un fantastico concerto dove cantano assieme Youssou n’Dour, Salif Keita, Toure Kounda, e Baaba Maal, con tutti i migliori tamburi e i griot, e ballerini fantastici; l’equivalente Senegalese dei Pink Floyd a Venezia nel 1989. Delirio della folla, sei felice e contento che ti senti in mezzo a tutta questa energia, e mentre tutti suonano e ballano, sparano a Youssou n’Dour. Di colpo.

Il concerto continua, con il povero Youssou secco sul pavimento (è finzione letteraria) e il resto del mondo che volteggia nei bubu colorati e fantastici. Tu rimani di pietra, a dir poco: minchia hanno sparato sul palco.

Tipo: il tuo mondo si ferma, ma il resto, la musica prosegue colorata quasi scusandosi di non poter fermare ballerini impazziti e tamburi stupendi. E così ogni tanto fanno secco qualcuno: Youssou’n Dour , un ballerino o due, e tu ti devi mandar giù il concerto d’artificio, gli a solo di sabar (la danza tradizionale senegalese per la quale la forza di gravità viene sospesa nel raggio d’azione del ballerino che non tocca più terra) e i cadaveri sul pavimento.


Ecco io mi sento così, sempre agli apici e sempre in cantina – è questo che intendo non riuscire a ricondurre ad unità. Non so se devo scrivere degli apici o della cantina; se comincio con uno poi mi sento male, e mi vedo come l’occidentale naif che si commuove ai soliti stereotipi colorati e sorridenti dell’africa. Se scrivo delle cose tristi che vedo, e che mi arrivano dentro, sento che è vero, Youssu’n Dour è stecchito sul palco, ma è il palco sul quale si sta svolgendo un concerto indimenticabile.


Tipo che cammino per strada e trovo nel mercato una bella zucca, e la compro, mi spiegano che è per l’acqua e il riso, mi fermo a parlare con le donne, ci scambiamo la solita cantilena di lunghissimi saluti, io mi sento affacciata alle finestre di altre vite che te le aprono accoglienti, è un bel momento; e poi vedo un talibè che gioioso corre dietro ad uno dei soliti pulmini scassati blu e gialli. Che ci sta benissimo un bimbo di quartiere che corre dietro al pulmino, potrebbe essere un cameo dei film di Tornatore, nella giusta ambientazione Italia anni ’50.

Ma non ci sta che sia solo, coperto di croste, vestito con una maglietta del brasile che gli arriva ai piedi, scalzo e col barattolo dell’elemosina.

E non ci sta che ce ne siano sempre sette o otto davanti casa, e altri cinque o sei al bus, e almeno altri 10 sotto il baobab che sta davanti alla Brioche Dorè dove pensi “Eh, che bello la Brioche Dorè mi prendo un croissant” e poi contemporaneamente “Neanche morta passo davanti ai bimbi col croissant, diventa veleno”.

E che sono messi meglio dei bimbi di strada di Nairobi; ma io a Nairobi non ci vivevo; vivo qui e questi vedo. E comunque bimbi di strada sono. O forse è che adesso dei bimbi ce li ho anch’io.



La povertà ha varie e infide unità di misura.

La più semplice è quella economica: hai i soldi, non hai i soldi. Ma in questo quotidiano ne tocchi con mano molte altre altre.


Esempi sono: quella eolica. Più povero sei a Dakar, più vivi lontano dal mare, in quartieri sempre più secchi e sempre più afosamente immobili. Manco a dirlo che noi stiamo a 150 mt dal mare e i bimbi prendono le otiti per il vento (almeno un po’ di giustizia a questo mondo!).


I chilometri all’ora sono un'altra misura: sono stata al Marchè Tilene per comprare stoffe e scarpe per i bimbi. Preferisco i mercati, i negozi del centro hanno prezzi che non pagherei neppure in Italia. E visto che non sta lontanissimo ho preso un Alhamdulillàh. All’andata tutto bene, cinque minuti e ci sono. Al ritorno sto almeno quaranta minuti bloccata nel quotidiano ingorgo che blocca completamente tutta la Rue de Ouakam, e dal quale di solito fuggo istantaneamente dicendo al taxista: “Prenez la Corniche, s’il vous plait!”. Se sei su un pulmino per il quale il lasciapassare di Dio non vale sulla Corniche, te ne stai al caldo e nei fumi di scappamento per ore e ore, affumicandoti, e vedendo che i passeggeri non sono gli unici malcapitati. Anzi, loro sono solo di passaggio: stai fermo minuti impietosi davanti alle infinite donne con bambini, ne hanno anche due o tre sotto i quattro anni, che lungo la strada vendono pacchettini di arachidi, e che tutto il giorno stanno sedute a pochi centimetri dal traffico pazzesco, con i bimbi anche loro sul marciapiede, nel caldo e nel fumo. E ti senti che il tuo è solo un gioco stronzo, di stare seduto nell’Alhamadulillah sfigato - che il tuo posto è il taxi che questa volta (ma non la prossima, mica sono scema) sfreccia via voltando verso la Corniche - e che comunque quelli sull’Alhamadulillah scassato senza vetri almeno una meta che non sia l’elemosina sulla strada ce l’hanno. Ed è quando incrocio lo sguardo semplice di una donna seduta a terra con tre bimbi cenciosi che - dopo aver fatto secco Youssou’n Dour - giustamente e a colpo sicuro sparano anche a Toure Kounda.

Perché non ci sta un bimbo cencioso di tre anni otto ore sul guard rail di un incrocio di Dakar. Oppure lui e FrancescoSole sono due cose diverse.


Anche l’’imparare è una misura della ricchezza: chiaro che i miei bimbi vanno ad una bella scuola, non cara per la verità (in molte città italiane il nido è decisamente più caro), ma chiaramente qui riservata ad una borghesia attenta e concreta. Non l’inaffrontabile scuola internazionale (proibitiva anche per tutti quegli espatriati che non lavorino per l’UNICEF o la Banca Mondiale); ma una piccola scuola molto ricercata per l’apertura mentale, la dimensione famigliare, e il programma bilingue franco-inglese che vi si applica. Per statuto le classi devono essere formate da almeno metà bimbi senegalesi, la direttrice è una gentile signora francese che vive a Gorè, alunni e maestre bianchi neri e meticci (qui tantissimi!). Devo dire che resterei qui degli anni solo per permettere ai bimbi di rimanervi il più a lungo possibile. E presa dalla contentezza l’altro giorno sono andata non lontano da casa, dove una cartolibreria vende libricini di pre-lettura e pre-scrittura, emozionata di vedere che Elia a casa scrive e comincia a leggere col libro della Pimpa in mano (“vieni Francesco ti leggo che l’Armando non crede all’uomo nero”). E mentre cammino sulla strada polverosa, al rallentatore vedo dietro una serie di pulmini che passano, un talibè dell’età di Elia che in ginocchio nella polvere cerca di sillabare da una pagina stracciata di una qualche pubblicità, il capo chino nella stessa posizione di Elia quando apre il libro della Pimpa. E qui chiaramente sparano a Salif Keita, un bel colpo in fronte– stecchito pure lui, mentre tutti applaudono al virtuoso della kora che butta l’occhio, sorride e prosegue come sulla metropolitana.


Come mi comporto coi bimbi di strada? Regola d’oro non dare soldi ai bimbi, la sapevo anche a Bologna quando lavoravo nei campi nomadi. Ma è una regola d’oro? Boh. Qui tutti continuano a suonare.

Sto davanti al bancomat dell’orribile Place de l’Indipendance, la piazza principale di Dakar, in attesa di prelevare. Non ci vado mai, è impossibile uscirne vivi, ti si attaccano addosso per farti comprare di tutto, e di urlano “Racist!” se fai resistenza in qualunque modo (educata, decisa, timida, arrabbiata, cercando di spiegare che non hai soldi). Quindi quando devo andarci mi corazzo, occhiali da sole velo in testa e non guardo nessuno. Chiaramente coda. Aspetto guardando ostentatamente nel vuoto, e la tecnica funziona, si capisce quando a Dakar sei nuovo e sei facile preda, e quando già hai messo la corazza. Ma da sotto sento il rumore del barattolo, e un nanetto di meno di quattro anni mi fa segno del soldino. Io la corazza per i nanetti non so dove la vendano, quindi cerco in tasca e tiro fuori 200 franchi (30 centesimi circa). Lui sembre riemerso da una discarica, mi sorride, sta un po’ così - mitragliano una serie di ballerini che almeno adesso finalmente toccheranno terra - e fa per andarsene. Mostra all’amico nelle sue condizioni, ma di qualche anno più grande, il soldino (di solito si da meno), e quindi anche il secondo viene da me. Ci sorridiamo, sono simpatici, ma mi cerco in tasca e non trovo niente altro che 25 centesimi. Glieli do, ci rimane molto male, raggiunge il piccino, si unisce un altro grandicello e cominciano a discutere animatamente. Si capisce che la gioia del piccolo sfuma drammaticamente. Deve dividere con loro; ma non perché siano prepotenti, è che stanno assieme. E come per reclamare a sentenza ingiusta vengono da me, a spiegarmi che non vogliono rubargli il soldino, ma porgendomi un mucchietto di monetine da 25 e 10 franchi mi chiedono se possono cambiare i 200 e dividerseli. “Oui, partagé!” dico io che non ho più monetine in tasca e sto per prelevare 250 mila franchi – e a questo punto dei gun machine fanno fuori tutta l’Orchestra Baobab: trattartattartattarta - tatrtartattatta!.

Si, dividetevelo, come dico coi biscotti agli iper-nutriti iper-coltivati Elia e Francesco, dividete l’elemosina.

Baaba Maal, e i suoi griots e ballerine si scrollano la polvere da sparo che si è posata sui vestiti di scena; io non muovo un muscolo da sotto gli occhiali e il foulard; e nello spettacolo non si capisce più quali sino i musicisti e quali i ballerini, tutti sono bravi a far tutto.


Continuo? La musica è davvero bella, la sera unica. Passo a prendere Elia di nuovo all’Atelier Colombin che stavolta ha fatto una piroga con sei pesci (perchè siamo stati a pescare in piroga, ma questa è un'altra storia, come quelle fantastiche dei taxi scassati e dei carretti che ci portano da un villaggio all’altro sulla Petite Cote), e un grande baobab con la luce dentro e un nido, e tutto felice coperto di creta e cioccolata mi urla tirandolo per le braccia “Mi ha insegnato lui, è bravissimo!”, ed è Babacar – 14 anni, bimbo di strada raccolto da Yussuf il “papà” di Colombin – ragazzo sordo muto che insegna ad essere felice al mio ignaro bimbo iper-nutrito e iper-coltivato.


E per finire – poi mai più prometto - l’unità di misura più impietosa della ricchezza è, purtroppo, l’amore: Fatima un amica di Parigi ha passato da noi qualche giorno, di passaggio per un periodo di volontariato a ‘Mbour, città della costa a due ore da Dakar, dove ha lavorato in un centro che ospita 160 bambini sotto l’anno in stato di abbandono. Quando ha chiesto cosa doveva fare le hanno consigliato di prestare attenzione ai bimbi che si dondolano da soli: cercano di autococcolarsi, e sono da prendere in braccio. Brutto metro eh?


Ecco, anche quando hanno seccato tutti i ballerini, e esci fuori dallo stadio perché basta, questo non fa per te, l’hai capito, tardi, ma chiaro – in quel momento ti accorgi che il vero concerto non lo fanno li, ma fuori, con barattoli e latte, tutti. E che stai male non perché hanno sparato a Youssou’n Dour e company, ma perché sei l’unico che ascolta e non balla e non suona. Che se ti decidessi a prendere in mano anche solo una latta dalla spazzatura (ovunque quaggiù, mica difficile), renderesti felice qualcuno o tutti gli altri, anche se accompagnate il funerale del povero Salif Keita; e che non serve saper suonare, basta scegliere qualcosa, anche tra la spazzatura, che in mano tua suona da Dio, e stai finalmente da qualche parte.


Così cominci non a vedere le cose, ma a starci un po’ dentro. Come la sera che sono rimasta bloccata a Pikine, il grande sobborgo di Dakar da cui provengono il grosso degli immigrati, e nel quale si concentra l’emigrazione interna dalle campagne secche alla città ingrata. Mi sono trovata a casa di un gruppo di donne, di tutte le età, vestite come per le grandi occasioni (ma qui le donne vestono sempre così, quando arriva Eva a casa nostra io rimango come davanti alla Regina di Saba), che si erano preparate ad accogliere il gruppo dei visitatori, la troupe che avrei dovuto accompagnare e che girava un documentario sul microcredito (con la stessa sensibilità dedicata ad uno spot sugli yogurt). Essendo che il set non era di gradimento non si sono presentati all’incontro, e questo mi ha permesso di ritrovarmici da sola, in una situazione molto bella. Pikine è, diciamo con un eufemismo, urbanisticamente brutta – tutta sabbia, case in macerie o in costruzione fa uguale, montoni e spazzatura ovunque, bimbi a milioni, aria allegra e triste di luogo vissuto e insalubre allo stesso tempo.


E qui nel cortile di una tipica casa senegalese, aperta al centro, dove abbiamo passato un paio d’ore con le donne a chiacchierare e ridere, ho ricevuto una bella strigliata di capo da queste donne, che nella scioltezza più libera mi hanno spiegato tutte le arti per sedurre e tenersi i mariti, spiegandomi come coucher , come mischiare le essenze da nascondere nelle lenzuola (e altrove, hem…), come indossare il binbin una collana da ventre che fa impazzire gli uomini (e sgridandomi perché pur essendo sposata non ne avevo una, ecco perché non fai figlie), ridendo come matte con una grande confidenza e senso di complicità, mentre i mutton belavano e scagazzavano tutto intorno.


Ecco: quello in cui ti ritrovi fuori dallo stadio, è un concerto di strada forte fortissimo, bello bellissimo, crudele e completo, che non ti arriva mediato o ripulito dai rumori di fondo.


E in questo concerto anche Eva – la donna che ci aiuta a casa - suona grandiosa, forte più di me e Aldo messi assieme, porta il binbin e balla il sabar. Quando ha perso il marito nella sciagura del traghetto Djola nel 2002 (nella quale morirono duemila persone) era incinta: la bimba che è nata ha l’età di Elia e si chiama Esperance.


Certo mi son fatta prendere la mano. Ma mentre quando sei a casa tua tutto spesso trascolora, lontano da casa tutto è forte e ben evidente. E noi non siamo più ben abituati a vedere le cose per quello che sono.


O forse uscendo dalle nostre abitudini, che sono fatte apposta per rassicurarci e per tenerci sulla strada dritta (legittima esigenza, per carità!), si vedono tutte le curve tagliate, i morti sul palco, i colori che ballano. Tutto assieme, come penso sia sempre stato.


Forse adesso mi sono sfogata, svuotata e spiegata anche con me stessa. E chissà che riesca finalmente a scrivere qualcosa di quaggiù!!!!!


Vado a ballare…