lunedì 29 marzo 2010

Senegal 9 - Maraichage (giardinaggio)




Un filo di magliette, pantaloni sbiaditi di detersivo e polvere, svolazzano stesi di traverso.

Lo vedo dalla finestrina azzurro brillante, e il dondolio tranquillo del vento mi ridà un respiro pacato, che si accorda col giorno ordinario di Pikine, dove mi trovo, nella periferia di Dakar. Anche se dire che Pikine è la periferia di Dakar, è come dire che è l'elefante a star attaccato alla pulce, e non viceversa.

Faccio la punta al rosa fucsia, secondo l'indicazione meticolosa di Lorette; appoggio i gomiti sullo scaffale, vicino all'astuccio pieno di matite colorate, tutte con la punta perfetta; guardo i panni saggiamente pigri, l'ancheggiare accaldato nel vicolo sabbioso, tempero con diligenza. Sono sul tetto del Village Pilote, casa di accoglienza temporanea per Talibè e bimbi di strada qui a Dakar. Nello stanzino magico. Due metri per tre, sedici bambini seduti a banchetti o di traverso su vecchie sedie di ferro, l'azzurro del telaio della finestra e i panni stesi. Loro, i ragazzi, sono caldi e intensi; Lorette - che segue dall'alfabetisation al lavaggio dei pentoloni - un tritasassi. Tiene in pugno, veemente e possibilista, una truppa scelta, rifiuti rimartellati in forma di persone, raccolti col colabrodo.
Quello di Baffodé e della sua unità di strada.



Tre volte alla settimana Baffodè, responsabile dell'Equipe Mobile, esce carico di colori, medicine, pallone, sorriso solido e tempo; cerca i bimbi e i ragazzini scappati dalle Daraa, le scuole coraniche. Perchè a Dakar la gran maggioranza di bimbi di strada sono Talibè, i "discepoli" di sedicenti Marabù: malnutriti, malvestiti, con la scelta di ripresentarsi a sera senza i soldi dovuti o scappare da qualche altra parte, tanto cosa ci perdo? Ragionamento semplice anche per un bimbo. Baffodè scarica colori, medicine, si siede, chiacchiera, ascolta. Dopo qualche volta invita. Non porta nessuno: i ragazzi arrivano da soli, deve essere una scelta, anche piccola. Per questo il cancello che doveva essere blu, al Village Pilote è sempre solo accostato.



Malik dovrebbe avere sui 14 anni. e' scappato più volte, sia dal centro che dalle varie Daraa; ha un occhio tutto slabbrato, gli hanno inciso un rigonfiamento che ora viene curato con antibiotici, ma lui si gratta sempre, allora Lorette lo stritola con lo sguardo. Ha l'aria spavalda.
Oumou è zitto, è arrivato ieri, in vigile osservazione: è stato poco sulla strada , disegna un villaggio pieno di colori. Quasi tutti vengono da zone rurali, molti sono comprati in Guinea Bissau e venduti a marabù senegalesi, verso Dakar è un vero traffico.

Djuldé Ba potrebbe avere sei anni, mi tiene la mano e facciamo assieme esercizi di grafismo. Tondo, linea, barretta; uguale ad Elia anche nella nuca, e per fortuna che dalla finestrina vedo la normalità dei panni stesi, così mi srotolo anche io, perchè la tendenza è a riarrotolarsi come una molla.

Fallou ha l'occhio malandrino come il mio Franceschino. Sa solo che viene dalla Casamance, una regione molto lontana del Senegal, a sud, e che vuol tornare da sua mamma. E' più piccolo di Djuldé Ba, ma in media la classe dei cadetti della debacle globale avrà sui 10-12 anni.
Matar disegna in cortile, una capanna con la doccia dentro (improbabile, ma alle spalle ha le docce del centro dove vive da parecchio), e un bimbo fuori dalla capanna che sniffa la colla. Qui non è evidente come a Nairobi, in un paese musulmano tutto è nascosto, ma l'uso di colla e solventi per lo sballo è costante, come la violenza di ogni tipo sui bimbi e tra i bimbi stessi che vivono sulla strada.

Mamadou è cresciuto figlio di mendicanti su un marciapiede, una rotonda, li vedo in giro questi asili straccioni, di bimbi nudi affidati ad una vecchia sotto l'albero di qualche incrocio, mentre i genitori mendicano o chissà. Poi i genitori appunto chissà, la vecchia l'ha portato in Gendarmerie, lei che se ne fa all'incrocio? E' solo un peso per chiunque, ma lui ha un obiettivo chiaro. Vuole da me un disegno di una macchina color fucsia.
Omar passa di corsa, prende un libro e scappa fuori. E' al centro da due anni, non conosco la sua storia, è scivolato fuori da chissà quale ingranaggio, e ora sta qui. In una situazione così per un centro di transito temporaneo è difficile rimanere tale.
Baffodé mi parlava invece di Aliou, che incontra da un po' della prigione minorile dove una volta settimana entra con la sua Equipe mobile. C'e' la possibilità che i ragazzi siano affidati al Village Pilote; ma Aliù, non si fida, dice Baffodé. "Il est toujour là, libre et in prison".

I ragazzi che si trovano al Village Pilote dovrebbero appoggiarsi solo qualche mese: il tempo di ritrovare la famiglia, il marabù, qualche parente, organizzare il rimpatrio, o la mediazione con la famiglia al villaggio. Durante questo tempo gli operatori, presenti giorno e notte, stabiliscono una relazione di fiducia, cercano di riannodare i fili, quelli che si riescono ad afferrare, quelli che possono reggere. E' diverso dal Kenya, per esempio, dove proliferano le case di accoglienza diciamo "definitive", nelle quali il ragazzo può crescere. Qui si cerca ostinatamente di rammendare e rammendare il tessuto sociale. Forse è l'Islam, forse è la tradizione più forte. L'intento è quello di rimettere questi ragazzi nella sacca dalla quale sono caduti, per quanto bucata e strappata sia.


"Project de retour"
: il ragazzo quando è pronto lo esprime, e assieme si cerca la via. Leggo sulla scheda di Matar: "Project de Retour: Je vais apprendre le francais et je veux divenir grand commercant ou menousiere". Papà: deceduto. Mamma: risposata. Almeno due anni trascorsi sulla strada".
"Project de retour" di Mor, meno di sei anni, scappato da una Daara. "Je veux rentrer chez ma mamà a Dakar, mais je ne connais pas labà" (cioè non so dire dove sia) .Come Hansel e Gretel, solo che gli uccellini hanno mangiato le molliche di pane. Pare che parli spesso di Gwedawaye, altro grande quartiere periferico. Si comincerà da questa indicazione. Intando Baffodè ride e fanno delle foto buffe, le porterà nel quartiere. Per ritrovare il problema iniziale, ovverossia: può tornare da chi non ha potuto far altro che regalarlo ad un Marabù?
Il colabrodo a me sembra che non abbia neppure i manici...


Ma eravamo in classe, sul tetto: Mor, il piccolino sa molte più parole in francese degli altri. Alla gara di indovinelli è lui che ne indovina molti, e fa vincere la squadra. Boato dei mondiali, belli i panni che svolazzano, Lorette procede, locomotva di ghisa inarrestabile. Insegna la sottrazione ad uno, grafismo ad un altro, ciascuno ha il suo quaderno, ordinato, disegni da colorare ai più piccoli, differenza tra -e-f-l-b ai grandi. E il gioco: dangereux, pas dangereux.
Toccare i fili elettrici?
Giocare in strada?
Toccare l'acqua bollente? (questo suscita discussioni, non capisco)
Mangiare il pezzo di pane del padre senza chiederlo? (tutti daccordo, dangereux)
Molte domande lasciano perplessi, i ragazzi si infervorano.

Sono solo metà dei 27 ospiti attuali, gli altri sono al maraichage, la cura dell'orto a circa 20 minuti a piedi nel quartiere vivace. E' tutta una questione di colabrodi, quindi va bene trovarsi con un innaffiatoio in mano.
Sono grandi, di metallo, e la mattina, prima delle otto, col fresco, metà bimbi partono, ciascuno col suo. Giù dallo scaffale del cortile, spinta al cancello solo socchiuso, e così, silenziosi col sole già bello e di traverso sui visi, verso il maraichage. Venti minuti attraverso la vita colorata e le puzze di Pikine (no fogne, buona coabitazione - nella stagione secca - di persone, montoni, cavalli taxi e pulmini fatiscenti, ma non nei colori), bubù colorati, fianchi fasciati e sensuali, venditori ambulanti e nobili sarti. Si arriva alla zona semiumida degli orti, dove se scavi trovi acqua dolce. I ragazzi innaffiano, poi tornano. Alcuni ne approfittano per scappare, altri per tessere tele colorate, quelle belle che vedi dappertutto qui, fili lunghi tra i tetti e le persone.

Mi chiedo il senso, e fatico a capire , anche se la freschezza e il ristoro sono innegabili. Forse è solo questo, prendere un respiro e pulire le lenti dalla sabbia, per riprendere la strada. Io non vedo un futuro. O forse il futuro è un vizio...qui del resto dicono che non esiste.


Cheik Dabo è un bel vecchio, in bubù blu, ancora imponente, nel fisico, nello sguardo e nel portamento. E' un artista conosciuto, studioso e calligrafo del Corano. Mi spiega che no, adesso non posso rientrare, è l'ora della preghiera, e mi porta sul tetto: è venerdì, e le strade sono ricoperte di fedeli che pregano, i taxi non girano, tutto il campo di calcio sabbioso, lo spazio tra le case, è coperto di uomini (solo uomini, grande maschio Allah!) che pregano, centinaia, coriandoli vivissimi. Le donne continuano a stendere, cucinare, pestare, afferrare bimbi, bacchettare montoni, trasportare pesi, svuotare catini, ridere, masticare bastoncini. Allora scendiamo in cortile, e si mangia tutti assieme, operatori e bimbi, accucciati attorno al grande piatto di metallo posato sul tappetino per terra. Attorno a quello dove sto io sono schierati dodici cucchiai impazienti, ventiquattro occhi contenti, circa trecentosessanta denti che scaldano i motori. Tutti attorno al Tiebudienne, buonissimo piatto senegalese, che su di me ha un effetto saziante di 24 ore circa, mi sa sia un po' duro da digerire.


Riso speziato, pesce e lettere arabe che mi colano intorno, come da un grande innaffiatoio. Cheik Dabo mi spiega che l'Islam non giustifica lo sfruttamento dei bimbi; che lui è stimato dai marabù, ha fatto corsi di calligrafia presso molte Daara; che solo a Pikine le Daara sono svariate centinaia, delle quali poco più di duecento sono federate nell'"Association de Daara". E che quelli che rimangono fuori spesso più che Marabutti sono fa-rabutti, che giocano sull'ignoranza e sulla povertà della gente. Lui va da tutti a parlare. lo fa perchè non vuol più vedere i bimbi in strada: "Siccome io non voglio più vedere i bimbi in strada vado a parlare con tutti i Marabù". E' semplice e risoluto come la sabbia che cola. Come Franceschino sulla spiaggia, quando cerca di trasportare la sabbia con quel suo setaccio giallo. Li vedo appaiati, Franky e Cheik Dabo, tutti e due con questi colabrodi in mano.


In realtà il suo lavoro è molto articolato; va singolarmente da ogni marabù, ma grazie al contatto con l'associazione, sta cercando con loro di definire le priorità di lavoro con le Daara "moderne", quelle per dirla all'occidentale , nelle quali si cercano di rispettare i diritti dei bambini . All'incontro fissato da lui con i dodici rappresentanti dell'associazione (al quale ha partecipato anche un rappresentante dell'OIM - International Organisation for Migration) si è discusso molto. I marabù hanno accettato il suo ruolo, e l'idea di fare un "Centre de Documentation sur les Daara", nel tentativo di definire la problematica dei Talibè, e le priorità di lavoro congiunto che possono darsi i marabù più "onesti" per contrastare il fenomeno.


Dabo diceva cancellare il fenomeno, a me viene da dire contrastare.
Il contrario di quando io dico, al presente: "Grazie, davvero, ci vediamo domani"
e loro mi rispondono: "Inshallah", se Dio lo vuole.


Bafodé tre volte alla settimana setaccia i quartieri coi suoi operatori.
Mi è chiaro che in mano hanno un colino. E che fa? Non fare è meglio?
Qual'è la soluzione?
Non c'è.


E quindi?
La nuca di Djulde Ba. E il presente, lo dice la parola, è un regalo.