lunedì 30 marzo 2009

FILMINI DI FAMIGLIA - Senegal 1: Gli Aldo's a Dakar



Questo un primo collage di foto sul nostro atterraggio quaggiù.
In perfetto stile "Mulino Bianco" ....
manca solo la colonna sonora "Wonderful World" di Amstrong...
Mostra essenzialmente la nostra vita quotidiana qui a Dakar,
quindi niente più che un filmino di famiglia...ma mi sono divertita un sacco a farlo!!

martedì 10 marzo 2009

Senegal 4 - Atelier Colombine

L’Atelier Colombine è un muro vecchio, bianco scrostato e macchiato di colori e creta, chiuso in quadrato, per metà col tetto di lamiera, e per metà senza tetto, con un bellissimo albero che ne ombreggia la metà scoperta.

Alle pareti sono addossati scaffali pieni di statuine e sculture di creta, di tutte le dimensioni, colori e qualità. Al centro un tavolone, con panche e sgabelli, colori, scatolini di yogurt vuoti, e tutto intorno bimbi che in un pacifico silenzio colorato ed arioso intenti impastano, modellano, fanno girare il tornio, colorano.

Un lato è occupato dalla fossa della creta (un bel bucone) e da una vasca divelta e piantata nel pavimento, che per altro pavimento non è perché è tutta terra battuta; poi c’è il grande forno – che cuoce una volta la settimana tutti i lavoretti che grandi e piccini creano a Colombine.


L’idea è venuta a Ibrahim Ndiaye, un artista oramai maturo che ha deciso di aprire questo atelier a Ouakam, Citè ASECNA, un quartiere allegramente popolare di Dakar, dove finalmente io ed Elia ci sentiamo assolutamente a casa.


La grande particolarità, che assieme ai colori e alla luce crea l’atmosfera magica di Colombine, è la quiete. Strano a dirsi perché si trova in un quartiere popolosissimo, e il laboratorio è frequentato da bimbi piccoli, abituati a fare un bel casino cosmico. Ma anche se è pieno (e bastano 7, 8 bimbi e i ragazzi che insegnano loro), si sente solo, oltre al concerto dei colori, la leggera musichetta senegalese di sottofondo, che proviene dalla radiolina vecchia in alto su uno scaffale (tipo Youssun’Dour).


Tanti bimbi che creano ed imparano a lavorare e cuocere la creta quasi in silenzio. Mica costretti, sia ben chiaro, ma naturalmente impegnati a comunicare nella massima disinvoltura con i ragazzi sordomuti del quartiere che sono i loro maestri: con un garbo, una pazienza e un allegria olimpica, ragazzi con un handicap che si sovrappone a quello di essere stati abbandonati dalle famiglie, insegnano a creare e gustare la pace ad altri bimbi senegalesi, europei, asiatici, che qui vengono dopo la scuola, nelle vacanze o il sabato.


Il risultato è una magia, piena di entusiasmo, colore, serenità: gesti che creano, terra da impastare, il tornio che gira, una gabbietta di pappagallini sospesa a un vecchio chiodo, e c’e’ sempre una bella arietta (del resto c’e’ solo metà tetto…).


Elia non si era accorto che i ragazzi erano sordomuti, preso dall’entusiasmo di imparare, di inginocchiarsi a terra a raccogliere la creta dal buco, di farsi tenere le mani attorno all’impasto sul tornio. Quando gli ho detto “Hai visto che bel posto?” alla fine del primo giorno lui mi ha risposto “Si è proprio tranquillo, mi piace molto”, a riprova che la comunicazione passa da altri canali che non quello che ci viene in mente per primo. Allora gli ho detto che i ragazzi non ci sentivano, erano sordi, e che per capire poteva tapparsi le orecchie. Lui ha fatto la prova, ed è stato così, a guardare fuori dal finestrino dell’ennesimo taxi scassato che ci portava verso casa.

E su taxi forse di tapparsi le orecchie ce n’era davvero bisogno! Per arrivare a Colombine si attraversa Ouakam, che per Eva è un bel quartiere; ma abbiamo già appurato che il concetto del bello è assolutamente relativo. Forse bello perché ancora a Dakar, e quindi più caro degli altri, tendenzialmente molto simili, ma molto lontani dalla città.

Solita strada intasatissima, ma essendo popolare, molto più di carretti trainati da persone e cavalli piuttosto che di macchine, e dove gli Almahdulillah prevalgono su tutto. Ai bordi della strada tutta la vita possibile; anzi, i bordi della strada spesso ricoprono la strada intera, e quindi ci si ferma a lungo. File di banchetti dove si vende di tutto, nella polvere: giganteschi mucchi di uova, pile di frutta, vasellame, catini catinelle e seggioline, bastoncini da masticare al posto di spazzolino e dentifricio, roba usata, carne difesa dalle mosche con code di vacca, sacchetti di spezie, tantissimo fieno (benzina dei quartieri popolari) e carbone. Mentre andiamo verso casa ci blocchiamo due volte: una per far passare una grande mandria di zebù, le mucche africane (come se dovessero passare tra le bancarelle della Montagnola), ed Elia non batte ciglio. Si stappa le orecchie, e mi dice “Una differenza con Bologna l’ho capita benissimo: qui i taxi sono gialli; guarda che corna lunghe quelle”.



La seconda volta per un interminabile fila di donne, bimbi (uomini pochi, al solito) in coda con le bombole del gas da 5 litri, per farsele riempire, sul lato della strada (no, veramente sul lato della strada ci stavano, nell’ordine: le masserizie dei negozi, le bancarelle davanti, gli avventori negozianti e relativi milioni di bimbi, i carretti in moto o parcheggiati, i talibè ad osservare il tutto, e quindi la file di gente stava proprio sulla strada). A Dakar non c’e’ una carenza di gas. Ma anche noi abbiamo dovuto mandare Mamadù in giro per tutta la città a cercare una bombola, pagata a costo doppio. C’è che l’importatore di gas e quello di carbone si sono messi d’accordo, e quello del gas non immette più bombole piene. Così quello del carbone fa affari d’oro, sale il prezzo del gas, e dopo un po’ il gioco si inverte. Infatti riusciti a passare la fila del gas rimaniamo ancora bloccati dietro all’enorme camion stracarico di carbone sul quale decine di talibè neri (il carbone sporca anche loro) lanciavano sacchi sui carretti di sotto.

A Elia e Francesco piacciono i taxi gialli tutti rotti. Qui a Ouakam alcuni sono diventati parte fissa della vita di strada. Quelli che proprio non partono più diventano case di capre, riparo per talibè, banchi di frutta, panchine per decine di bimbi che osservano la confusione, comodi poggiaschiena per sfaccendati, convinti o vinti. Alcuni hanno al sabbia che arriva a metà ruota.



Ho fatto la strada di Ouakam a piedi diverse volte, mascherata da Libanese, ovverosia uguale a prima ma con foulard-copricapo e senza occhiali da sole. Acquisto una rispettabilità ed un invisibilità non fruibile da una toubab normalmente. Anche qui la percezione delle cose è diversa: se ho la testa coperta e gli occhiali da sole sono una bianca e molti mi si attaccano dietro. Se non ho gli occhiali da sole e porto meglio il copricapo sono una residente libanese musulmana che non si disturba. E’ fantastico: entro nel mercato coperto e mi perdo tra mille odori penetranti, faticando a farmi largo tra le migliaia di donne che comprano e vendono perché non ho uno dei loro super culoni che mi fa largo tra la folla.

Misteriosamente ogni tanto sulla strada c’e’ un calcetto, un calciobalilla, non so come li chiamate; nella polvere con gente che gioca. Liberissimi tutti di giocare, per carità, ma in africa non ne avevo mai visti. Mi fa venire in mente istantaneamente un capitolo del libro “Madame BA”, nel quale, descrivendo l’insensatezza di alcuni inutili progetti di sviluppo si narra appunto (e mi sorge il dubbio che non fosse finzione narrativa) di quell’aereo di una grande organizzazione internazionale che atterra su una qualche pista polverosa dell’West Africa e scarica in pompa magna decine di calciobalilla per la pace fra i popoli. Se era vero ho trovato dove sono finiti.



Citè ASECNA confina con l’aeroporto, il che significa che mano a mano che ci si avvicina, l’atmosfera si trasforma da confusione africana a paesaggio semi-desertico: pochi edifici, larghi, nella sabbia, aria un po’ da terra di nessuno. Solo alla fine si svolta a sinistra e si rientra nel quartiere vivace. E’ proprio in questa ventosa terra di nessuno che il primo giorno ha attirato la mia attenzione una casetta, abbastanza sgarruppata come le altre, con staccionata, ombrellone di paglia obliquo e cortiletto con l’insegna “Galerie d’Art”. Decisamente incongruente (per me) ed infatti combattendo contro il vento mi sono avvicinata. Sul muretto mezzo rotto stava seduto solo un signore di mezza età, spettinato e coperto di sabbia (come tutti) che quando mi ha visto arrivare mi ha accolto con calma e amichevolmente, senza alzarsi, come se si aspettasse un visitatore, e con un gran sorriso senza metà denti.

Io che parlo a stento il francese ho cominciato a dirgli che ero li, per portare il mio bimbo all’atelier Colombine e che ero curiosa della sua galleria. Sinceramente volevo vedere che cosa poteva venir in mente di esporre in un luogo del genere. Lui si è scusato dicendomi che gli dispiaceva, ma aveva tutto in esposizione altrove, e allora gli ho promesso che sarei tornata quando le opere fossero rientrate. Ai saluti (lunghissimi), chiaramente mi ha invitato a pranzo da lui con marito e figli e quando ha capito che ero Italiana, mi ha detto un gran “Arrivederci!” senza denti. Coprendomi la bocca col foulard perché l’Harmattan ci stava infilando sabbia anche nelle orecchie gli ho detto “Mais vous parlez Italien!” e lui, nei turbini di sabbia come in un quadro senza paesaggio di De Chirico “Si, il mio maestro all’accademia di belle arti era italiano!”



L’ora dell’uscita dall’atelier è bellissima. L’atelier è dentro il quartiere, lontano dalla strada, dove di macchine non ce ne sono; di fronte c’e’ lo slargo di una moschea, e degli alberi, e una grande scuola (do’ capannoni nella sabbia), con un muro di cinta mezzo rotto, sul quale un maestro pedante o un animo grandioso ha scritto “ La riuscita sta all’inizio dello sforzo”. Io, romantica ed idealista chiaramente mi ispiro, mi commuovo e ispiro sabbia a pieni polmoni.

Tutta la piazza è piena di donne, uomini in bubu coloratissimi che chiacchierano, bimbi che cantano, corrono e giocano con sassi, bastoncini, vecchie ruote di bicicletta, bimbe spesso coi capelli dritti in decine di treccine che sembrano stoppini, e vento e sabbia che vola dappertutto. Mi perdo Elia, ma è tutto talmente familiare che non mi viene da preoccuparmi; infatti lo ritrovo, guardandomi un po’ attorno, è seduto su un mucchio di pietre con intorno delle capre sonnacchiose, che quando mi vede mi grida felice, mostrandomi in alto dei sassolini bianchi “Ho capito guarda. Tre più due fa cinque!!!”

domenica 8 marzo 2009

Senegal 3 - Il colore degli angeli


Breve intervista a Francesco su Mamadù,
il custode della nostra casa,
un ragazzo Bambara del Mali, molto dolce,
che passa molto tempo con Francesco.


Insieme zappano, innaffiano,
ascoltano musichette allegre, e chiacchierano seduti con gli altri guardiani del quartiere,
sul marciapiede.




La dice lunga su quali sono le cose importanti,
e su come anche le cose più evidenti
alla fine
possano risultare semplici condizionamenti...



Mi pare fosse una frase del piccolo principe: "L'essenziale è invisibile agli occhi. Non si vede bene che con il cuore"








venerdì 6 marzo 2009

Senegal 2 - Impasse

Qual è il motivo per cui non scrivo?

Perché dovrei dire che qui mi sembra di perdere del tempo a far la ricca.
Facile obiettare che sono appena arrivata, e che anche a Bomet, seppur molto più pittoresco, ispiratore e rurale, la pure facevamo i ricchi (cemento per terra, qui piastrelle; villa qui e là malga…ma la scala è la stessa..).

E’ che qui lo sento di più, giocoforza: Dakar è una bruttissima città, Bomet erano morbide colline sempre sovrastate da un arcobaleno. Il senso di claustrofobia alla fine ci veniva anche a Bomet, perché era un buco di culo (come ben descrissi in uno dei primi letteroni) e perché le collinette dolci ricoperte di tukul, si estendevano identiche a se stesse per centinaia di km tutto intorno. Ricordo che un giorno eravamo partiti tutti contenti per un giro in moto, ma più macinavamo i km più aumentava il senso di disagio, come se fossimo davanti ad un rullo che ripeteva all’infinito lo stesso 20 cm di paesaggio senza variarlo di una virgola.



Qui invece la claustrofobia è data dal fatto che siamo in una metropoli, e che non si sentono le voci di nessuno, perché sovrastate dal rumore e dal puzzo del traffico; perché c’e’ internet, emule, skype, le monde diplomatique, tutti i supermercati, e quindi non solo non posso fuggire dallo smog e dallo stress, ma neanche dalla “civiltà”; essere qui non fa per me nulla di diverso di quanto non avrebbe fatto la vita in un qualunque paese europeo. Con l’aggravante però del profondo malessere che mi abita a causa della povertà che mi viene sbattuta quotidianamente sotto il naso, e della prevaricazione della classe dei ricchi e potenti sui poveri, che qui è veramente schiacciante.
Certo: sono chiusa in casa, sono moglie a seguito, mi occupo di cose stupide (cibo, arredamento, relazioni con scuola e mamme, cromie dei tessuti della casa e del giardino, seppure cercando di non farsi prendere la mano). Insomma….ma non dove vo andare in Africa???



E’ che l’africa nella mia testa era la luce di Bomet, la campagna di Bomet, le voci tutto intorno a noi del paesino Bomet, che sole abitavano lo spazio, i tramonti, i negozietti, le passeggiate con le acacie e gli alberi fiamma che si stagliavano nel cielo (e qui nonno Franco avrebbe qualcosa da obiettare…ricordo la tua espressione quando cercando di muoverti per Bomet, e costretto a farlo attraverso i rigagnoli mefitici, con l’idea di saltare da un sasso all’altro ti ritrovasti si a saltare, ma scoprendo che quelli che sembravano isole-sassi erano invece isole-merdedivacca)…



Anche i parchi qui sono una brutta, miserrima copia di quelli che avevo visto in Kenya e Tanzania. Bella forza, ancora, direte voi, certo, il Senegal mica è famoso per i parchi…(per lo meno la zona in cui ci troviamo noi); siamo stati domenica scorsa alla riserva di Bandià: 70 km a sud di Dakar.
Tralasciando il fatto che tutti gli animali presenti (solo erbivori; niente elefanti; dei bufali che a me sembravano vitellini nani) non sono originari di qua ma sono stati importati dal Sud-Africa… tralasciando il fatto che ho capito che a me i safari piacevano, più che per gli animali (che vedere la giraffa ruminare non è che dia emozioni a lungo termine) piuttosto per la maestosità dei paesaggi, e che Bandià è un sterpaio cieco per svariati ettari, con degli slarghi su qualche baobab ogni tanto; e che i coccodrilli nello stagno di Bandià sono lunghi circa 80cm contro i 5 o 7 metri di quelli in libertà accanto ai quali campeggiavamo con i falò delle nostre guardie Maasai (Silvia , Lucio….happy new year 2001!!!); tralasciando tutto ciò (che rende comunque la gita un must per famiglia con due bimbi di 5 e 3 anni – e una giornata indimenticabile. Elia, in piedi nel fango davanti al rinoceronte in libertà, scocciato: “Beh, vedere un rinoceronte è facile, guarda com’è grosso…le lumache invece sono difficili da trovar...guarda che corno, e che culone!” “Uffaaa, mamma aiutami a cercare le lumache…”) quello che mi ha sconvolto, tralasciando tutto ciò, sono stati i 25 km di periferia suburbana disastrata che obbligatoriamente bisogna percorrere se si vuole uscire da Dakar.



Per uscire da Dakar, che è una penisola che si sporge verso l’oceano, c’e’ un'unica strada, ad una sola corsia spesso interrotta da lavori, incidenti, bestiame, e ingorghi. Questa strada serve persone e merci che intendono entrare-uscire dalla capitale. Più della metà della popolazione del Senegal vive a Dakar, e il grosso in questi 25 km fuori dalla città, che sono meno cari in termini di affitto di stanze o stamberghe; quindi tutti i giorni almeno un quinto della popolazione del Senegal imbocca la suddetta strada per lavorare, commerciare, tornare a casa. Un incubo. E’ brutta, brutta, brutta, tutta terra secca e sabbia che vola, e traffico, casino, smog, baracche, mucchi di merci, edifici diroccati, e sporcizia ovunque. Ribadisco, ho abitato in Kenya, ho imparato a guidare sul lato destro della strada a Kibera, il più grosso slum del continente africano, conosco abbastanza bene quartieri analoghi della capitale Keniana (come Riruta); ma mai ho avuto la sensazione di oppressione che ho avuto in quei 25 km di polvere. Si, l’ho avuta, a piedi negli slum di Nairobi. 



Poi a breve (hahahahahahaha!!!!) sarà finito il nuovo aeroporto di Dakar, costruito nell’entroterra a 50 km dalla città. L’attuale è letteralmente in città, e gli aerei passano sopra la testa a pochi metri. A parte il fatto che sarà inservibile se non finiscono anche la rispettiva autostrada, poiché per percorrere quei 50 km ci vorranno in media dalle 3 alle 5 ore (visto lo stato della strada e del traffico), questo ha fatto si che tutti i terreni situati tra città e nuovo aeroporto acquisissero valore, e quindi, finita la bruttura della grande cintura Dakaruoise (che di claustrofobia ne da mica da ridere), comincia….la secchitudine della secchitudine…altri kilometri che forse un tempo erano misteriosi ed affascinanti, con i baobab disseminati, ma che ora fanno ancor più tristezza, perché moltissimi sono già lottizzati, e quindi delimitati da altrettanti reticoli di mattoni di cemento secco, lamiere, ammassi di sabbia.



Vabbè, Karen Blixen è infastidita dalla polvere e dallo sporco e tornerebbe tanto volentieri nella sua residenza di Karen, nella foresta di Nairobi. 



Nel mentre Aldo, che voi conoscete bene*, esce di casa in giacca e cravatta, parla con due cellulari, torna tardi, sempre inseguito da un codazzo di funzionari, impiegati, artigiani, postulanti. I meglio sono i soggetti, italiani, senegalesi, o italo senegalesi che cercano di farsi approvare proposte da finanziare sul progetto che segue per il MaE. “Si ho un idea fantastica, facciamo energia dalla merda …no, non è un idea mia, c’e’ nel film "Mad Max";…guardi io intendo comprare un traghetto e far servizio Dakar San Louis;….senta io faccio lo yogurt a Tuba (deserto) ma avrei bisogno di un incoraggiamento;…compriamo un autobus che parte dall’italia e attraversa le città del deserto;…facciamo un bello scambio con la camera di Commercio di Cosenza;….ho un cugino che ha un amico che….”.
(*: come uomo pacifico che ama la vita di famiglia e pescare, e se potesse vincere un concorso da postino…).



Mitico sopra ogni cosa rimane il grande, grandissimo Francesco Sole.
Tutte le mattine esce di casa con zainetto, borraccia e martello (giocattolo), per aggiustare Dakar. Manifesta disappunto per ogni casa sfasciata, taxi cadente, marciapiede e palo della luce divelto. Si ferma, descrive quanto vede, meticolosamente passa in rassegna tutte le ammaccature o pezzi mancanti dei taxi, e poi smartella puntigliosamente per sistemare ogni cosa. Ha un gran lavoro da fare. Una delle frasi più frequenti: “Mamma, tutto otto!” (rotto)
Come il 98% degli abitanti di Dakar stiamo vicino ad una moschea. I primi giorni, tutte le volte che il muezzin cominciava le alte litanie felice indicava il cielo col ditino, e diceva: “Tenti? Canta!”. Adesso (chissà, forse influenzato da papà…) alza gli occhi al cielo, allarga le braccia e dice “Ma Cioccia baatta!” (Internazionale esclamazione bolognese).



Sicuramente però mi sono spiegata male. E’ che nel tentativo di descrivere un aspetto delle cose, si fanno sparire gli altri, e pare che quello che si è scritto sia la verità. Che invece si riflette nei mille specchietti appesi tutto intorno a noi. E allora, un altro riflesso di questa vita qui a Dakar, è l’arcobaleno sul muro dell’Atelier Colombine. E quello apre il cuore.