venerdì 6 marzo 2009

Senegal 2 - Impasse

Qual è il motivo per cui non scrivo?

Perché dovrei dire che qui mi sembra di perdere del tempo a far la ricca.
Facile obiettare che sono appena arrivata, e che anche a Bomet, seppur molto più pittoresco, ispiratore e rurale, la pure facevamo i ricchi (cemento per terra, qui piastrelle; villa qui e là malga…ma la scala è la stessa..).

E’ che qui lo sento di più, giocoforza: Dakar è una bruttissima città, Bomet erano morbide colline sempre sovrastate da un arcobaleno. Il senso di claustrofobia alla fine ci veniva anche a Bomet, perché era un buco di culo (come ben descrissi in uno dei primi letteroni) e perché le collinette dolci ricoperte di tukul, si estendevano identiche a se stesse per centinaia di km tutto intorno. Ricordo che un giorno eravamo partiti tutti contenti per un giro in moto, ma più macinavamo i km più aumentava il senso di disagio, come se fossimo davanti ad un rullo che ripeteva all’infinito lo stesso 20 cm di paesaggio senza variarlo di una virgola.



Qui invece la claustrofobia è data dal fatto che siamo in una metropoli, e che non si sentono le voci di nessuno, perché sovrastate dal rumore e dal puzzo del traffico; perché c’e’ internet, emule, skype, le monde diplomatique, tutti i supermercati, e quindi non solo non posso fuggire dallo smog e dallo stress, ma neanche dalla “civiltà”; essere qui non fa per me nulla di diverso di quanto non avrebbe fatto la vita in un qualunque paese europeo. Con l’aggravante però del profondo malessere che mi abita a causa della povertà che mi viene sbattuta quotidianamente sotto il naso, e della prevaricazione della classe dei ricchi e potenti sui poveri, che qui è veramente schiacciante.
Certo: sono chiusa in casa, sono moglie a seguito, mi occupo di cose stupide (cibo, arredamento, relazioni con scuola e mamme, cromie dei tessuti della casa e del giardino, seppure cercando di non farsi prendere la mano). Insomma….ma non dove vo andare in Africa???



E’ che l’africa nella mia testa era la luce di Bomet, la campagna di Bomet, le voci tutto intorno a noi del paesino Bomet, che sole abitavano lo spazio, i tramonti, i negozietti, le passeggiate con le acacie e gli alberi fiamma che si stagliavano nel cielo (e qui nonno Franco avrebbe qualcosa da obiettare…ricordo la tua espressione quando cercando di muoverti per Bomet, e costretto a farlo attraverso i rigagnoli mefitici, con l’idea di saltare da un sasso all’altro ti ritrovasti si a saltare, ma scoprendo che quelli che sembravano isole-sassi erano invece isole-merdedivacca)…



Anche i parchi qui sono una brutta, miserrima copia di quelli che avevo visto in Kenya e Tanzania. Bella forza, ancora, direte voi, certo, il Senegal mica è famoso per i parchi…(per lo meno la zona in cui ci troviamo noi); siamo stati domenica scorsa alla riserva di Bandià: 70 km a sud di Dakar.
Tralasciando il fatto che tutti gli animali presenti (solo erbivori; niente elefanti; dei bufali che a me sembravano vitellini nani) non sono originari di qua ma sono stati importati dal Sud-Africa… tralasciando il fatto che ho capito che a me i safari piacevano, più che per gli animali (che vedere la giraffa ruminare non è che dia emozioni a lungo termine) piuttosto per la maestosità dei paesaggi, e che Bandià è un sterpaio cieco per svariati ettari, con degli slarghi su qualche baobab ogni tanto; e che i coccodrilli nello stagno di Bandià sono lunghi circa 80cm contro i 5 o 7 metri di quelli in libertà accanto ai quali campeggiavamo con i falò delle nostre guardie Maasai (Silvia , Lucio….happy new year 2001!!!); tralasciando tutto ciò (che rende comunque la gita un must per famiglia con due bimbi di 5 e 3 anni – e una giornata indimenticabile. Elia, in piedi nel fango davanti al rinoceronte in libertà, scocciato: “Beh, vedere un rinoceronte è facile, guarda com’è grosso…le lumache invece sono difficili da trovar...guarda che corno, e che culone!” “Uffaaa, mamma aiutami a cercare le lumache…”) quello che mi ha sconvolto, tralasciando tutto ciò, sono stati i 25 km di periferia suburbana disastrata che obbligatoriamente bisogna percorrere se si vuole uscire da Dakar.



Per uscire da Dakar, che è una penisola che si sporge verso l’oceano, c’e’ un'unica strada, ad una sola corsia spesso interrotta da lavori, incidenti, bestiame, e ingorghi. Questa strada serve persone e merci che intendono entrare-uscire dalla capitale. Più della metà della popolazione del Senegal vive a Dakar, e il grosso in questi 25 km fuori dalla città, che sono meno cari in termini di affitto di stanze o stamberghe; quindi tutti i giorni almeno un quinto della popolazione del Senegal imbocca la suddetta strada per lavorare, commerciare, tornare a casa. Un incubo. E’ brutta, brutta, brutta, tutta terra secca e sabbia che vola, e traffico, casino, smog, baracche, mucchi di merci, edifici diroccati, e sporcizia ovunque. Ribadisco, ho abitato in Kenya, ho imparato a guidare sul lato destro della strada a Kibera, il più grosso slum del continente africano, conosco abbastanza bene quartieri analoghi della capitale Keniana (come Riruta); ma mai ho avuto la sensazione di oppressione che ho avuto in quei 25 km di polvere. Si, l’ho avuta, a piedi negli slum di Nairobi. 



Poi a breve (hahahahahahaha!!!!) sarà finito il nuovo aeroporto di Dakar, costruito nell’entroterra a 50 km dalla città. L’attuale è letteralmente in città, e gli aerei passano sopra la testa a pochi metri. A parte il fatto che sarà inservibile se non finiscono anche la rispettiva autostrada, poiché per percorrere quei 50 km ci vorranno in media dalle 3 alle 5 ore (visto lo stato della strada e del traffico), questo ha fatto si che tutti i terreni situati tra città e nuovo aeroporto acquisissero valore, e quindi, finita la bruttura della grande cintura Dakaruoise (che di claustrofobia ne da mica da ridere), comincia….la secchitudine della secchitudine…altri kilometri che forse un tempo erano misteriosi ed affascinanti, con i baobab disseminati, ma che ora fanno ancor più tristezza, perché moltissimi sono già lottizzati, e quindi delimitati da altrettanti reticoli di mattoni di cemento secco, lamiere, ammassi di sabbia.



Vabbè, Karen Blixen è infastidita dalla polvere e dallo sporco e tornerebbe tanto volentieri nella sua residenza di Karen, nella foresta di Nairobi. 



Nel mentre Aldo, che voi conoscete bene*, esce di casa in giacca e cravatta, parla con due cellulari, torna tardi, sempre inseguito da un codazzo di funzionari, impiegati, artigiani, postulanti. I meglio sono i soggetti, italiani, senegalesi, o italo senegalesi che cercano di farsi approvare proposte da finanziare sul progetto che segue per il MaE. “Si ho un idea fantastica, facciamo energia dalla merda …no, non è un idea mia, c’e’ nel film "Mad Max";…guardi io intendo comprare un traghetto e far servizio Dakar San Louis;….senta io faccio lo yogurt a Tuba (deserto) ma avrei bisogno di un incoraggiamento;…compriamo un autobus che parte dall’italia e attraversa le città del deserto;…facciamo un bello scambio con la camera di Commercio di Cosenza;….ho un cugino che ha un amico che….”.
(*: come uomo pacifico che ama la vita di famiglia e pescare, e se potesse vincere un concorso da postino…).



Mitico sopra ogni cosa rimane il grande, grandissimo Francesco Sole.
Tutte le mattine esce di casa con zainetto, borraccia e martello (giocattolo), per aggiustare Dakar. Manifesta disappunto per ogni casa sfasciata, taxi cadente, marciapiede e palo della luce divelto. Si ferma, descrive quanto vede, meticolosamente passa in rassegna tutte le ammaccature o pezzi mancanti dei taxi, e poi smartella puntigliosamente per sistemare ogni cosa. Ha un gran lavoro da fare. Una delle frasi più frequenti: “Mamma, tutto otto!” (rotto)
Come il 98% degli abitanti di Dakar stiamo vicino ad una moschea. I primi giorni, tutte le volte che il muezzin cominciava le alte litanie felice indicava il cielo col ditino, e diceva: “Tenti? Canta!”. Adesso (chissà, forse influenzato da papà…) alza gli occhi al cielo, allarga le braccia e dice “Ma Cioccia baatta!” (Internazionale esclamazione bolognese).



Sicuramente però mi sono spiegata male. E’ che nel tentativo di descrivere un aspetto delle cose, si fanno sparire gli altri, e pare che quello che si è scritto sia la verità. Che invece si riflette nei mille specchietti appesi tutto intorno a noi. E allora, un altro riflesso di questa vita qui a Dakar, è l’arcobaleno sul muro dell’Atelier Colombine. E quello apre il cuore.






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