giovedì 10 settembre 2009

Senegal 8 - Renaissance Africaine



Il caldo della stagione delle piogge cuoce la testa, ammuffisce scarpe e borse nell’armadio, e di notte tiene svegli…

"Poooooop corn!!!! Poooop corn!!!!
- Tutto bene? Sei sveglio?
- Si, senti anche tu i pop corn?
- Eh?
- Senti? : poop corn...
- Aldo, è il Muezzin...
(dialogo realmente avvenuto verso le due di notte, lessi dal caldo, fradici di sudore)

Con questo caldo si fatica a far funzionare il cervello, più del solito; per lo meno a non esserci abituati. Settimane di incubo personale, peggiorate dalla posizione di Aldo, fautore del: “Non abbiamo bisogno dell’aria condzionata” “No, tu che stai nove ore in ufficio a 15 gradi no di certo, noi a casa con 45 un pochetto”; “No, non serve, sono solo poche settimane; poi tanto non c’e’ mai la corrente”.

E su questo effettivamente ha ragione. Durante la stagione delle piogge la corrente non c’e’ quasi mai, quindi voler l’aria condizionata significa comprare anche un generatore, che va a gasolio…che a parte la spesa assurda (diverse migliaia di euro) sinceramente mette proprio la ciliegina sulla torta del perfetto colonialista moderno, impassibile rispetto all’impoverimento delle risorse del pianeta e tutto proteso ad ottimizzare il comfort del proprio soggiorno “in the field”.


Dakar nella stagione delle piogge è sempre allagata; il nostro quartiere “bene” solo in alcuni punti. Ma le banlieu sono costantemente sott’acqua: baracche e case piantate in un impasto di sabbia, fango e fogne che straripano. E’ un problema annoso, e il presidente Wade l’ha risolto - dopo le elezioni amministrative nelle quali ha perso in tutti i mandamenti – trasferendo alle comunità locali la competenza relativa. Traduzione: il governo vi da (meglio: promette) i milioni di Franchi SEFA necessari alla “bonifica” se lo votate. Ma visto che non lo avete votato, la bonifica ve la fate da soli, con le casse (inesistenti) delle Comunità Locali.

Esito: stiamo in una Venezia ben poco romantica.

Anzi, questo stiamo è ben poco sincero: stanno…

Questa la foto di un amico di Dakar (Roberto Sias) parla da sola: come le altre, sempre sue, a questo link:

http://www.fotocommunity.it/pc/pc/pcat/487837/display/18641895


Meglio di tutti sta il baobab del soggiorno: io temevo che in casa soffrisse, pianta semi-eterna abituata al sole cocente della brousse. In realtà nella pentola a pressione nella quale si è trasformata la grande sala, il baobab non solo non ha sofferto, ma ha buttato tutta una nuova capigliatura, tenerina e verde: Elia e Francesco l’hanno decorato con alcuni insetti colorati che trovano nelle merendine (roba di plastica coreana- come la merendina stessa); e tanti tanti millepiedi sono nati dalle sue radici:

“Mamma guarda, un millepiedi!”

“Uh, che bello, tutto giallo e blu, mettiamolo nello scatolino dello yogurt, con una fogliolina, ecco là!”

“Mamma guarda, un altro, è quasi in corridoio!”

“Ma pensa, che carino…”

“Elena, c’e’ un millepiedi davanti al frigo! L’hanno portato i gatti?”

“Mah… oh, quanti millepiedi…dappertutto!…ma da dove vengono? Uh, tutti dal baobab!”

In tre Aldo, Mamadù e il giardiniere l’hanno trascinato fuori, dove abbiamo deciso di lasciarlo qualche giorno, per permettere che si completi la migrazione dei millepiedi, e anche perché la schiena di Aldo deve prepararsi allo sforzo del rientro in soggiorno.



I taxi di Dakar sono gialli, come i millepiedi del baobab. Ce ne sono tantissimi: per dare un idea - come gli scooter in italia: del resto, con i trasporti comuni affidati agli Alhamdulillah (non si chiamano così, ma c’e’ la grande scritta davanti) vecchi camioncini traballanti, ammaccati, coloratissimi e con la gente appesa per di fuori); e considerato che la popolazione che può permettersi una macchina propria è ancora un elite; allora il giallo taxi è il colore che prevale nelle strade di Dakar.

Noi li prendiamo spessissimo, e oramai anche i bimbi nei loro giochi ci hanno messo che fanno il taxista a turno, e si trasportano in casa con la Ferrari a pedali di Francesco e il triciclo cinese a due posti, un mai più senza delle nostre giornate familiari.


I taxi sono di varie categorie che si combinano in più modi:

quelli nuovi,

quelli vecchi,

quelli distrutti che non puoi crederci che camminino ancora;

quelli che sembrano distrutti e invece sono solo vecchi, e ti stupiscono piacevolmente e ridanno fiducia nel futuro;

quelli che sembrano nuovi e invece sono distrutti,

quelli che camminano benissimo, ma sembrano distrutti, bruciati, accartocciati e poi rimartellati in forma di taxi;

quelli che li senti da lontano (con le orecchie o con il naso)

della maggior pare è impossibile dire marca e modello della macchina.

Ma i fini di mamma coi bimbi che li usa di continuo, e che abbassa gli standard in relazione alle necessità contingenti, allora la categoria principale è: scarica dentro o non scarica dentro. Oramai anche Francesco quando ci sediamo dietro uno di quelli che per non so quale problema invece di scaricare dal tubo di scappamento scarica nell’abitacolo, dice subito molto contrariato “Ecco. Scarica dentro!”.

I taxi, soprattutto i più rotti, sono dei marabù, che li fanno guidare da talibè cresciuti, continuando così lo sfruttamento (il sostegno?) anche in età adulta. I trasporti sono in mano ai marabù, anche i transport communes, i piccoli pulmini più scassati; e appesi dietro ci sono sempre i talibè, che riscuotono il biglietto (non c’e’ un prezzo fisso, costano un niente variabile).


In taxi coi bimbi si aprono universi comunicativi con una delle categorie più maschiliste ed indisponenti del globo: il taxista integralista senegalese. Da quelli che dopo averti caricato si fermano per pisciare o si fanno la barba mentre guidano (qui senza fermarsi per niente); a quelli che sputano e lo sputo rientra dal finestrino dietro dove stiamo noi; a quelli più gentili, che ci offrono la mela che stanno mangiando a morsi e ci impressionano con sorpassi di carri/cavalli/pulmini in quadrupla fila mentre io prego Dio ed Elia e Francesco incitano la diligenza impazzita. Si carica spesso altra gente, o casse di pesce, che vengono rovesciate senza particolari preoccupazioni nel baule dietro (si, letteralmente qualcuno rovescia casse di grossi pesci direttamente nel baule dell’auto – e ti chiedi il perché allora dell’arbre magique davanti)


Spesso: non ci sono finestrini, la portiera è vuota dentro, ovverosia è lamiera grezza con filo di ferro per aprire; se c’e’ il finestrino la maniglia è una per quattro porte, quindi l’autista la fornisce su richiesta, staccandola dalla sua portiera; il sedile dietro è una coperta su sembrerebbe dei cartoni;

“Messieur, il y a beaucoup du fum ici!” “Oui, ce ne’est pas grave!”


Per portare a casa il baobab Aldo si è subito reso conto che in un taxi non ci stava (eh, furbo!), e quindi baobab terra e vaso gigante sono stati caricati su uno dei tanti carretti col cavallo, abituati a trasportare carbone o mattoni. I cavalli sono sempre spelacchiati, parcheggiati vicino a pile di pneumatici; addirittura da mesi c’e’ la carcassa di uno morto non lontano da casa: è diventato una mummia incartapecorita, odore di morte a diverse decine di metri – in Africa capita di sentire odore di cadaveri, per ora fortunatamente noi solo di animali.


E il carretto, issato il baobab, è poi partito, lentissimo verso casa. Per non intasare la Rue de Ouakam, trafficata strada principale, ha imboccato la via delle Mamelles, le due collinette di Dakar. Dopo parecchio di baobab, carretto e carrettieri, nessuna traccia:

“Ho perso un baobab”

“Aldo, fa caldo, cosa stai dicendo?”

“Si, andava su per le mamelles, col cavallo, non si sono più visti. Non so più dov’è il baobab che ti avevo comprato”

“Aldo, penso sia giunto il momento di comprare l’aria condizionata. Tu ne risenti anche se non vuoi ammetterlo”

“Adesso prendo lo scooter e li inseguo”

“Ma chi?”

“Il baobab! E’ il tuo anello di fidanzamento!

“Devi inseguire in scooter un baobab su un cavallo che ti ha rubato l’anello di fidanzamento – che tra parentesi sono tredici anni che mi devi dare? Hai finito le scuse?”

“No, il baobab E’ il tuo anello. Vado e te lo riporto: ci sposiamo!!!!”

E’ così che Aldo mi ha fatto la sua proposta di matrimonio qui a Dakar, all’inizio della stagione delle piogge 2009.



Ma per tornare al Paese che ci ospita, ora inondato nelle città e torrido ovunque, e per rendervi partecipi di un compagno fisso delle giornate Dakaroises, e delle chiacchiere di tutti, taxisti compresi, ecco in fotografia la statua della “Renaissance Africane”: il simbolo della Grandeur e dell’ascesa di un paese la cui economia e tessuto sociale si è sbrindellato nell’ultimo decennio. Almeno 150 mt di statua colossale in bronzo che è impossibile non vedere in qualunque punto ci si trovi di Dakar.


Noi per diversi mesi coi bimbi l’abbiamo chiamata “le gambe”, perché chiaramente l’hanno cominciata a costruire dal basso, e quindi per un gran pezzo l’unica cosa che si vedeva erano queste colossali gambone piantate sulla cima di una delle due Mamelles (quelle dove si è perso il baobab), le uniche due colline di un paesaggio piattissimo fino all’orizzonte, e che spuntano proprio sul promontorio di Dakar. Su di una c’e’ l’antico faro di metà ‘800, e l’altra era sempre rimasta rispettosamente libera. La megalomania del presidente in carica ha quindi voluto che proprio su questo simbolo del paese e della città sorgesse il monumento che vedete in foto, degno dei migliori deliri del socialismo reale di Ceausescu, costruito dai coreani, costato la bellezza di 12 miliardi di franchi, oggetto e fine di una svergognata speculazione. Il compenso è stato pagato in terre edificabili, del valore almeno 3 volte superiore, a personaggi dell’entourage presidenziale (per un giro di affari di almeno 50 milioni di euro – poco da ridere noi italiani col ponte di Messina).

Si potrà salire sulla cima e ammirare il panorama dalla testa dell’uomo, ci saranno centro congressi, ristoranti, ececc: i guadagni andranno al 35% al presidente direttamente (che se li è avocati poiché ha avuto lui l’idea – questa la ragione ufficiale), il resto sarà gestito da un ente autonomo presieduto da suo figlio (evviva).


Ho preso la foto quando ancora mancava la testa: mi sembrava molto simbolico della situazione dell’Africa, o del mondo in genere: spendere montagne di soldi insensatamente quando ci sarebbero drammatiche necessità. Ora la testa c’e’, ma per effetto del locale panoramico situato proprio in cima, diciamo nel cappellino, l’impressione non cambia. Trattasi di testa vuota.