martedì 10 marzo 2009

Senegal 4 - Atelier Colombine

L’Atelier Colombine è un muro vecchio, bianco scrostato e macchiato di colori e creta, chiuso in quadrato, per metà col tetto di lamiera, e per metà senza tetto, con un bellissimo albero che ne ombreggia la metà scoperta.

Alle pareti sono addossati scaffali pieni di statuine e sculture di creta, di tutte le dimensioni, colori e qualità. Al centro un tavolone, con panche e sgabelli, colori, scatolini di yogurt vuoti, e tutto intorno bimbi che in un pacifico silenzio colorato ed arioso intenti impastano, modellano, fanno girare il tornio, colorano.

Un lato è occupato dalla fossa della creta (un bel bucone) e da una vasca divelta e piantata nel pavimento, che per altro pavimento non è perché è tutta terra battuta; poi c’è il grande forno – che cuoce una volta la settimana tutti i lavoretti che grandi e piccini creano a Colombine.


L’idea è venuta a Ibrahim Ndiaye, un artista oramai maturo che ha deciso di aprire questo atelier a Ouakam, Citè ASECNA, un quartiere allegramente popolare di Dakar, dove finalmente io ed Elia ci sentiamo assolutamente a casa.


La grande particolarità, che assieme ai colori e alla luce crea l’atmosfera magica di Colombine, è la quiete. Strano a dirsi perché si trova in un quartiere popolosissimo, e il laboratorio è frequentato da bimbi piccoli, abituati a fare un bel casino cosmico. Ma anche se è pieno (e bastano 7, 8 bimbi e i ragazzi che insegnano loro), si sente solo, oltre al concerto dei colori, la leggera musichetta senegalese di sottofondo, che proviene dalla radiolina vecchia in alto su uno scaffale (tipo Youssun’Dour).


Tanti bimbi che creano ed imparano a lavorare e cuocere la creta quasi in silenzio. Mica costretti, sia ben chiaro, ma naturalmente impegnati a comunicare nella massima disinvoltura con i ragazzi sordomuti del quartiere che sono i loro maestri: con un garbo, una pazienza e un allegria olimpica, ragazzi con un handicap che si sovrappone a quello di essere stati abbandonati dalle famiglie, insegnano a creare e gustare la pace ad altri bimbi senegalesi, europei, asiatici, che qui vengono dopo la scuola, nelle vacanze o il sabato.


Il risultato è una magia, piena di entusiasmo, colore, serenità: gesti che creano, terra da impastare, il tornio che gira, una gabbietta di pappagallini sospesa a un vecchio chiodo, e c’e’ sempre una bella arietta (del resto c’e’ solo metà tetto…).


Elia non si era accorto che i ragazzi erano sordomuti, preso dall’entusiasmo di imparare, di inginocchiarsi a terra a raccogliere la creta dal buco, di farsi tenere le mani attorno all’impasto sul tornio. Quando gli ho detto “Hai visto che bel posto?” alla fine del primo giorno lui mi ha risposto “Si è proprio tranquillo, mi piace molto”, a riprova che la comunicazione passa da altri canali che non quello che ci viene in mente per primo. Allora gli ho detto che i ragazzi non ci sentivano, erano sordi, e che per capire poteva tapparsi le orecchie. Lui ha fatto la prova, ed è stato così, a guardare fuori dal finestrino dell’ennesimo taxi scassato che ci portava verso casa.

E su taxi forse di tapparsi le orecchie ce n’era davvero bisogno! Per arrivare a Colombine si attraversa Ouakam, che per Eva è un bel quartiere; ma abbiamo già appurato che il concetto del bello è assolutamente relativo. Forse bello perché ancora a Dakar, e quindi più caro degli altri, tendenzialmente molto simili, ma molto lontani dalla città.

Solita strada intasatissima, ma essendo popolare, molto più di carretti trainati da persone e cavalli piuttosto che di macchine, e dove gli Almahdulillah prevalgono su tutto. Ai bordi della strada tutta la vita possibile; anzi, i bordi della strada spesso ricoprono la strada intera, e quindi ci si ferma a lungo. File di banchetti dove si vende di tutto, nella polvere: giganteschi mucchi di uova, pile di frutta, vasellame, catini catinelle e seggioline, bastoncini da masticare al posto di spazzolino e dentifricio, roba usata, carne difesa dalle mosche con code di vacca, sacchetti di spezie, tantissimo fieno (benzina dei quartieri popolari) e carbone. Mentre andiamo verso casa ci blocchiamo due volte: una per far passare una grande mandria di zebù, le mucche africane (come se dovessero passare tra le bancarelle della Montagnola), ed Elia non batte ciglio. Si stappa le orecchie, e mi dice “Una differenza con Bologna l’ho capita benissimo: qui i taxi sono gialli; guarda che corna lunghe quelle”.



La seconda volta per un interminabile fila di donne, bimbi (uomini pochi, al solito) in coda con le bombole del gas da 5 litri, per farsele riempire, sul lato della strada (no, veramente sul lato della strada ci stavano, nell’ordine: le masserizie dei negozi, le bancarelle davanti, gli avventori negozianti e relativi milioni di bimbi, i carretti in moto o parcheggiati, i talibè ad osservare il tutto, e quindi la file di gente stava proprio sulla strada). A Dakar non c’e’ una carenza di gas. Ma anche noi abbiamo dovuto mandare Mamadù in giro per tutta la città a cercare una bombola, pagata a costo doppio. C’è che l’importatore di gas e quello di carbone si sono messi d’accordo, e quello del gas non immette più bombole piene. Così quello del carbone fa affari d’oro, sale il prezzo del gas, e dopo un po’ il gioco si inverte. Infatti riusciti a passare la fila del gas rimaniamo ancora bloccati dietro all’enorme camion stracarico di carbone sul quale decine di talibè neri (il carbone sporca anche loro) lanciavano sacchi sui carretti di sotto.

A Elia e Francesco piacciono i taxi gialli tutti rotti. Qui a Ouakam alcuni sono diventati parte fissa della vita di strada. Quelli che proprio non partono più diventano case di capre, riparo per talibè, banchi di frutta, panchine per decine di bimbi che osservano la confusione, comodi poggiaschiena per sfaccendati, convinti o vinti. Alcuni hanno al sabbia che arriva a metà ruota.



Ho fatto la strada di Ouakam a piedi diverse volte, mascherata da Libanese, ovverosia uguale a prima ma con foulard-copricapo e senza occhiali da sole. Acquisto una rispettabilità ed un invisibilità non fruibile da una toubab normalmente. Anche qui la percezione delle cose è diversa: se ho la testa coperta e gli occhiali da sole sono una bianca e molti mi si attaccano dietro. Se non ho gli occhiali da sole e porto meglio il copricapo sono una residente libanese musulmana che non si disturba. E’ fantastico: entro nel mercato coperto e mi perdo tra mille odori penetranti, faticando a farmi largo tra le migliaia di donne che comprano e vendono perché non ho uno dei loro super culoni che mi fa largo tra la folla.

Misteriosamente ogni tanto sulla strada c’e’ un calcetto, un calciobalilla, non so come li chiamate; nella polvere con gente che gioca. Liberissimi tutti di giocare, per carità, ma in africa non ne avevo mai visti. Mi fa venire in mente istantaneamente un capitolo del libro “Madame BA”, nel quale, descrivendo l’insensatezza di alcuni inutili progetti di sviluppo si narra appunto (e mi sorge il dubbio che non fosse finzione narrativa) di quell’aereo di una grande organizzazione internazionale che atterra su una qualche pista polverosa dell’West Africa e scarica in pompa magna decine di calciobalilla per la pace fra i popoli. Se era vero ho trovato dove sono finiti.



Citè ASECNA confina con l’aeroporto, il che significa che mano a mano che ci si avvicina, l’atmosfera si trasforma da confusione africana a paesaggio semi-desertico: pochi edifici, larghi, nella sabbia, aria un po’ da terra di nessuno. Solo alla fine si svolta a sinistra e si rientra nel quartiere vivace. E’ proprio in questa ventosa terra di nessuno che il primo giorno ha attirato la mia attenzione una casetta, abbastanza sgarruppata come le altre, con staccionata, ombrellone di paglia obliquo e cortiletto con l’insegna “Galerie d’Art”. Decisamente incongruente (per me) ed infatti combattendo contro il vento mi sono avvicinata. Sul muretto mezzo rotto stava seduto solo un signore di mezza età, spettinato e coperto di sabbia (come tutti) che quando mi ha visto arrivare mi ha accolto con calma e amichevolmente, senza alzarsi, come se si aspettasse un visitatore, e con un gran sorriso senza metà denti.

Io che parlo a stento il francese ho cominciato a dirgli che ero li, per portare il mio bimbo all’atelier Colombine e che ero curiosa della sua galleria. Sinceramente volevo vedere che cosa poteva venir in mente di esporre in un luogo del genere. Lui si è scusato dicendomi che gli dispiaceva, ma aveva tutto in esposizione altrove, e allora gli ho promesso che sarei tornata quando le opere fossero rientrate. Ai saluti (lunghissimi), chiaramente mi ha invitato a pranzo da lui con marito e figli e quando ha capito che ero Italiana, mi ha detto un gran “Arrivederci!” senza denti. Coprendomi la bocca col foulard perché l’Harmattan ci stava infilando sabbia anche nelle orecchie gli ho detto “Mais vous parlez Italien!” e lui, nei turbini di sabbia come in un quadro senza paesaggio di De Chirico “Si, il mio maestro all’accademia di belle arti era italiano!”



L’ora dell’uscita dall’atelier è bellissima. L’atelier è dentro il quartiere, lontano dalla strada, dove di macchine non ce ne sono; di fronte c’e’ lo slargo di una moschea, e degli alberi, e una grande scuola (do’ capannoni nella sabbia), con un muro di cinta mezzo rotto, sul quale un maestro pedante o un animo grandioso ha scritto “ La riuscita sta all’inizio dello sforzo”. Io, romantica ed idealista chiaramente mi ispiro, mi commuovo e ispiro sabbia a pieni polmoni.

Tutta la piazza è piena di donne, uomini in bubu coloratissimi che chiacchierano, bimbi che cantano, corrono e giocano con sassi, bastoncini, vecchie ruote di bicicletta, bimbe spesso coi capelli dritti in decine di treccine che sembrano stoppini, e vento e sabbia che vola dappertutto. Mi perdo Elia, ma è tutto talmente familiare che non mi viene da preoccuparmi; infatti lo ritrovo, guardandomi un po’ attorno, è seduto su un mucchio di pietre con intorno delle capre sonnacchiose, che quando mi vede mi grida felice, mostrandomi in alto dei sassolini bianchi “Ho capito guarda. Tre più due fa cinque!!!”

1 commento:

LAICANTROPIA ha detto...

Mi sono quasi commossa nel leggere il racconto dell'atelier e la scritta poi. Inizio a ripeterlo per impararlo a memoria
un grande abbraccio
anna
PS
invidio tanto elia