martedì 21 aprile 2009

Senegal 6 - Concerto col botto


A scanso di equivoci diamo per assodato alcune questioni: qui stiamo meglio di quanto non stessimo in Italia, cosa possibile poiché i bianchi espatriati in Africa fanno i leoni nel paese delle pecore. Si emigra per andare a star meglio, sia che lo si faccia verso i paesi ricchi, che verso quelli poveri (salvo rari esempi difficili da emulare). Con quanto ne consegue, in termini di riflessioni, giudizi, contraddizioni.

E’ stato per me molto più lineare ed esotico frequentare i campi nomadi a Bologna, negli anni dal ’91 in poi; non sono qui perché innamorata dell’Africa, dei sorrisi, della gente semplice. In una metropoli del sud del mondo c’e ben poco dell’africa favoleggiata da viaggiatori superficiali, o anche di quell’africa rurale e sostenibile che ho conosciuto nella nostra permanenza nel Kenya occidentale. Sono qui perché c’e’ un tarlo strano: un misto di egoismo, curiosità, e convinzione che ci sia bisogno di veder e sentire altro, se si ha il lusso di poterlo fare. Perché può avere un senso che ricade anche fuori di se. Scriveva il caustico Racine: “Il viaggio è una vertigine per cretini” (una cosa del genere comunque). Sono d’accordo solo in parte.


C’è un chilometro che mi piace molto a Dakar: è la zona di Ouakam, dove c’e’ il mercato, e la strada e la gente sono vive e colorate. Penso ce ne siano moltissimi di questi chilometri a Dakar, ma questo è vicino a casa, e attraversarlo mi immerge in un quotidiano diverso dal mio, e che mi incuriosisce ed attrae.

E’ allegro, sono allegri i colori, è un mercato dove si vende e si trasporta di tutto, proprio in mezzo alle case e alla vita della gente. Ci sono quindi tutte le donne coloratissime, e pile di uova, e sacchi di spezie e di riso, e di frutti di baobab, e pesce e verdure anche queste di tutti i colori, e i sacchi di fiori di ibisco essiccati per fare il “bissap” – la bevanda rinfrescante e dolcissima. E carne tagliata in mille forme per tutti i palati, e stoffe che occhieggiano non le sfumature – che in africa ce n’è poche di sfumature– ma le esplosioni dei rossi, degli arancio, dei verdoni, dei blu e dei viola.

E il giallo dei taxi, il nero delle pile di carbone, e l’ocra della sabbia dappertutto.


E’ che questa mitragliata di colori io non riesco a ricondurla ad unità. Sarà un vizio della mia testa razional-occidentale, sarà l’approccio che abbiamo noi europei con le cose: analisi-tesi-antitesi-sintesi, ma non ne vengo a capo. Sicuramente c’e’ un vizio di fondo nell’essere noi qui; è tanto lampante, quanto certo che comunque porterà frutto. Ma quale frutto...Inshallah!


Mi è venuta in mente un ottima immagine che da il senso di come mi sento: è come stare a un fantastico concerto dove cantano assieme Youssou n’Dour, Salif Keita, Toure Kounda, e Baaba Maal, con tutti i migliori tamburi e i griot, e ballerini fantastici; l’equivalente Senegalese dei Pink Floyd a Venezia nel 1989. Delirio della folla, sei felice e contento che ti senti in mezzo a tutta questa energia, e mentre tutti suonano e ballano, sparano a Youssou n’Dour. Di colpo.

Il concerto continua, con il povero Youssou secco sul pavimento (è finzione letteraria) e il resto del mondo che volteggia nei bubu colorati e fantastici. Tu rimani di pietra, a dir poco: minchia hanno sparato sul palco.

Tipo: il tuo mondo si ferma, ma il resto, la musica prosegue colorata quasi scusandosi di non poter fermare ballerini impazziti e tamburi stupendi. E così ogni tanto fanno secco qualcuno: Youssou’n Dour , un ballerino o due, e tu ti devi mandar giù il concerto d’artificio, gli a solo di sabar (la danza tradizionale senegalese per la quale la forza di gravità viene sospesa nel raggio d’azione del ballerino che non tocca più terra) e i cadaveri sul pavimento.


Ecco io mi sento così, sempre agli apici e sempre in cantina – è questo che intendo non riuscire a ricondurre ad unità. Non so se devo scrivere degli apici o della cantina; se comincio con uno poi mi sento male, e mi vedo come l’occidentale naif che si commuove ai soliti stereotipi colorati e sorridenti dell’africa. Se scrivo delle cose tristi che vedo, e che mi arrivano dentro, sento che è vero, Youssu’n Dour è stecchito sul palco, ma è il palco sul quale si sta svolgendo un concerto indimenticabile.


Tipo che cammino per strada e trovo nel mercato una bella zucca, e la compro, mi spiegano che è per l’acqua e il riso, mi fermo a parlare con le donne, ci scambiamo la solita cantilena di lunghissimi saluti, io mi sento affacciata alle finestre di altre vite che te le aprono accoglienti, è un bel momento; e poi vedo un talibè che gioioso corre dietro ad uno dei soliti pulmini scassati blu e gialli. Che ci sta benissimo un bimbo di quartiere che corre dietro al pulmino, potrebbe essere un cameo dei film di Tornatore, nella giusta ambientazione Italia anni ’50.

Ma non ci sta che sia solo, coperto di croste, vestito con una maglietta del brasile che gli arriva ai piedi, scalzo e col barattolo dell’elemosina.

E non ci sta che ce ne siano sempre sette o otto davanti casa, e altri cinque o sei al bus, e almeno altri 10 sotto il baobab che sta davanti alla Brioche Dorè dove pensi “Eh, che bello la Brioche Dorè mi prendo un croissant” e poi contemporaneamente “Neanche morta passo davanti ai bimbi col croissant, diventa veleno”.

E che sono messi meglio dei bimbi di strada di Nairobi; ma io a Nairobi non ci vivevo; vivo qui e questi vedo. E comunque bimbi di strada sono. O forse è che adesso dei bimbi ce li ho anch’io.



La povertà ha varie e infide unità di misura.

La più semplice è quella economica: hai i soldi, non hai i soldi. Ma in questo quotidiano ne tocchi con mano molte altre altre.


Esempi sono: quella eolica. Più povero sei a Dakar, più vivi lontano dal mare, in quartieri sempre più secchi e sempre più afosamente immobili. Manco a dirlo che noi stiamo a 150 mt dal mare e i bimbi prendono le otiti per il vento (almeno un po’ di giustizia a questo mondo!).


I chilometri all’ora sono un'altra misura: sono stata al Marchè Tilene per comprare stoffe e scarpe per i bimbi. Preferisco i mercati, i negozi del centro hanno prezzi che non pagherei neppure in Italia. E visto che non sta lontanissimo ho preso un Alhamdulillàh. All’andata tutto bene, cinque minuti e ci sono. Al ritorno sto almeno quaranta minuti bloccata nel quotidiano ingorgo che blocca completamente tutta la Rue de Ouakam, e dal quale di solito fuggo istantaneamente dicendo al taxista: “Prenez la Corniche, s’il vous plait!”. Se sei su un pulmino per il quale il lasciapassare di Dio non vale sulla Corniche, te ne stai al caldo e nei fumi di scappamento per ore e ore, affumicandoti, e vedendo che i passeggeri non sono gli unici malcapitati. Anzi, loro sono solo di passaggio: stai fermo minuti impietosi davanti alle infinite donne con bambini, ne hanno anche due o tre sotto i quattro anni, che lungo la strada vendono pacchettini di arachidi, e che tutto il giorno stanno sedute a pochi centimetri dal traffico pazzesco, con i bimbi anche loro sul marciapiede, nel caldo e nel fumo. E ti senti che il tuo è solo un gioco stronzo, di stare seduto nell’Alhamadulillah sfigato - che il tuo posto è il taxi che questa volta (ma non la prossima, mica sono scema) sfreccia via voltando verso la Corniche - e che comunque quelli sull’Alhamadulillah scassato senza vetri almeno una meta che non sia l’elemosina sulla strada ce l’hanno. Ed è quando incrocio lo sguardo semplice di una donna seduta a terra con tre bimbi cenciosi che - dopo aver fatto secco Youssou’n Dour - giustamente e a colpo sicuro sparano anche a Toure Kounda.

Perché non ci sta un bimbo cencioso di tre anni otto ore sul guard rail di un incrocio di Dakar. Oppure lui e FrancescoSole sono due cose diverse.


Anche l’’imparare è una misura della ricchezza: chiaro che i miei bimbi vanno ad una bella scuola, non cara per la verità (in molte città italiane il nido è decisamente più caro), ma chiaramente qui riservata ad una borghesia attenta e concreta. Non l’inaffrontabile scuola internazionale (proibitiva anche per tutti quegli espatriati che non lavorino per l’UNICEF o la Banca Mondiale); ma una piccola scuola molto ricercata per l’apertura mentale, la dimensione famigliare, e il programma bilingue franco-inglese che vi si applica. Per statuto le classi devono essere formate da almeno metà bimbi senegalesi, la direttrice è una gentile signora francese che vive a Gorè, alunni e maestre bianchi neri e meticci (qui tantissimi!). Devo dire che resterei qui degli anni solo per permettere ai bimbi di rimanervi il più a lungo possibile. E presa dalla contentezza l’altro giorno sono andata non lontano da casa, dove una cartolibreria vende libricini di pre-lettura e pre-scrittura, emozionata di vedere che Elia a casa scrive e comincia a leggere col libro della Pimpa in mano (“vieni Francesco ti leggo che l’Armando non crede all’uomo nero”). E mentre cammino sulla strada polverosa, al rallentatore vedo dietro una serie di pulmini che passano, un talibè dell’età di Elia che in ginocchio nella polvere cerca di sillabare da una pagina stracciata di una qualche pubblicità, il capo chino nella stessa posizione di Elia quando apre il libro della Pimpa. E qui chiaramente sparano a Salif Keita, un bel colpo in fronte– stecchito pure lui, mentre tutti applaudono al virtuoso della kora che butta l’occhio, sorride e prosegue come sulla metropolitana.


Come mi comporto coi bimbi di strada? Regola d’oro non dare soldi ai bimbi, la sapevo anche a Bologna quando lavoravo nei campi nomadi. Ma è una regola d’oro? Boh. Qui tutti continuano a suonare.

Sto davanti al bancomat dell’orribile Place de l’Indipendance, la piazza principale di Dakar, in attesa di prelevare. Non ci vado mai, è impossibile uscirne vivi, ti si attaccano addosso per farti comprare di tutto, e di urlano “Racist!” se fai resistenza in qualunque modo (educata, decisa, timida, arrabbiata, cercando di spiegare che non hai soldi). Quindi quando devo andarci mi corazzo, occhiali da sole velo in testa e non guardo nessuno. Chiaramente coda. Aspetto guardando ostentatamente nel vuoto, e la tecnica funziona, si capisce quando a Dakar sei nuovo e sei facile preda, e quando già hai messo la corazza. Ma da sotto sento il rumore del barattolo, e un nanetto di meno di quattro anni mi fa segno del soldino. Io la corazza per i nanetti non so dove la vendano, quindi cerco in tasca e tiro fuori 200 franchi (30 centesimi circa). Lui sembre riemerso da una discarica, mi sorride, sta un po’ così - mitragliano una serie di ballerini che almeno adesso finalmente toccheranno terra - e fa per andarsene. Mostra all’amico nelle sue condizioni, ma di qualche anno più grande, il soldino (di solito si da meno), e quindi anche il secondo viene da me. Ci sorridiamo, sono simpatici, ma mi cerco in tasca e non trovo niente altro che 25 centesimi. Glieli do, ci rimane molto male, raggiunge il piccino, si unisce un altro grandicello e cominciano a discutere animatamente. Si capisce che la gioia del piccolo sfuma drammaticamente. Deve dividere con loro; ma non perché siano prepotenti, è che stanno assieme. E come per reclamare a sentenza ingiusta vengono da me, a spiegarmi che non vogliono rubargli il soldino, ma porgendomi un mucchietto di monetine da 25 e 10 franchi mi chiedono se possono cambiare i 200 e dividerseli. “Oui, partagé!” dico io che non ho più monetine in tasca e sto per prelevare 250 mila franchi – e a questo punto dei gun machine fanno fuori tutta l’Orchestra Baobab: trattartattartattarta - tatrtartattatta!.

Si, dividetevelo, come dico coi biscotti agli iper-nutriti iper-coltivati Elia e Francesco, dividete l’elemosina.

Baaba Maal, e i suoi griots e ballerine si scrollano la polvere da sparo che si è posata sui vestiti di scena; io non muovo un muscolo da sotto gli occhiali e il foulard; e nello spettacolo non si capisce più quali sino i musicisti e quali i ballerini, tutti sono bravi a far tutto.


Continuo? La musica è davvero bella, la sera unica. Passo a prendere Elia di nuovo all’Atelier Colombin che stavolta ha fatto una piroga con sei pesci (perchè siamo stati a pescare in piroga, ma questa è un'altra storia, come quelle fantastiche dei taxi scassati e dei carretti che ci portano da un villaggio all’altro sulla Petite Cote), e un grande baobab con la luce dentro e un nido, e tutto felice coperto di creta e cioccolata mi urla tirandolo per le braccia “Mi ha insegnato lui, è bravissimo!”, ed è Babacar – 14 anni, bimbo di strada raccolto da Yussuf il “papà” di Colombin – ragazzo sordo muto che insegna ad essere felice al mio ignaro bimbo iper-nutrito e iper-coltivato.


E per finire – poi mai più prometto - l’unità di misura più impietosa della ricchezza è, purtroppo, l’amore: Fatima un amica di Parigi ha passato da noi qualche giorno, di passaggio per un periodo di volontariato a ‘Mbour, città della costa a due ore da Dakar, dove ha lavorato in un centro che ospita 160 bambini sotto l’anno in stato di abbandono. Quando ha chiesto cosa doveva fare le hanno consigliato di prestare attenzione ai bimbi che si dondolano da soli: cercano di autococcolarsi, e sono da prendere in braccio. Brutto metro eh?


Ecco, anche quando hanno seccato tutti i ballerini, e esci fuori dallo stadio perché basta, questo non fa per te, l’hai capito, tardi, ma chiaro – in quel momento ti accorgi che il vero concerto non lo fanno li, ma fuori, con barattoli e latte, tutti. E che stai male non perché hanno sparato a Youssou’n Dour e company, ma perché sei l’unico che ascolta e non balla e non suona. Che se ti decidessi a prendere in mano anche solo una latta dalla spazzatura (ovunque quaggiù, mica difficile), renderesti felice qualcuno o tutti gli altri, anche se accompagnate il funerale del povero Salif Keita; e che non serve saper suonare, basta scegliere qualcosa, anche tra la spazzatura, che in mano tua suona da Dio, e stai finalmente da qualche parte.


Così cominci non a vedere le cose, ma a starci un po’ dentro. Come la sera che sono rimasta bloccata a Pikine, il grande sobborgo di Dakar da cui provengono il grosso degli immigrati, e nel quale si concentra l’emigrazione interna dalle campagne secche alla città ingrata. Mi sono trovata a casa di un gruppo di donne, di tutte le età, vestite come per le grandi occasioni (ma qui le donne vestono sempre così, quando arriva Eva a casa nostra io rimango come davanti alla Regina di Saba), che si erano preparate ad accogliere il gruppo dei visitatori, la troupe che avrei dovuto accompagnare e che girava un documentario sul microcredito (con la stessa sensibilità dedicata ad uno spot sugli yogurt). Essendo che il set non era di gradimento non si sono presentati all’incontro, e questo mi ha permesso di ritrovarmici da sola, in una situazione molto bella. Pikine è, diciamo con un eufemismo, urbanisticamente brutta – tutta sabbia, case in macerie o in costruzione fa uguale, montoni e spazzatura ovunque, bimbi a milioni, aria allegra e triste di luogo vissuto e insalubre allo stesso tempo.


E qui nel cortile di una tipica casa senegalese, aperta al centro, dove abbiamo passato un paio d’ore con le donne a chiacchierare e ridere, ho ricevuto una bella strigliata di capo da queste donne, che nella scioltezza più libera mi hanno spiegato tutte le arti per sedurre e tenersi i mariti, spiegandomi come coucher , come mischiare le essenze da nascondere nelle lenzuola (e altrove, hem…), come indossare il binbin una collana da ventre che fa impazzire gli uomini (e sgridandomi perché pur essendo sposata non ne avevo una, ecco perché non fai figlie), ridendo come matte con una grande confidenza e senso di complicità, mentre i mutton belavano e scagazzavano tutto intorno.


Ecco: quello in cui ti ritrovi fuori dallo stadio, è un concerto di strada forte fortissimo, bello bellissimo, crudele e completo, che non ti arriva mediato o ripulito dai rumori di fondo.


E in questo concerto anche Eva – la donna che ci aiuta a casa - suona grandiosa, forte più di me e Aldo messi assieme, porta il binbin e balla il sabar. Quando ha perso il marito nella sciagura del traghetto Djola nel 2002 (nella quale morirono duemila persone) era incinta: la bimba che è nata ha l’età di Elia e si chiama Esperance.


Certo mi son fatta prendere la mano. Ma mentre quando sei a casa tua tutto spesso trascolora, lontano da casa tutto è forte e ben evidente. E noi non siamo più ben abituati a vedere le cose per quello che sono.


O forse uscendo dalle nostre abitudini, che sono fatte apposta per rassicurarci e per tenerci sulla strada dritta (legittima esigenza, per carità!), si vedono tutte le curve tagliate, i morti sul palco, i colori che ballano. Tutto assieme, come penso sia sempre stato.


Forse adesso mi sono sfogata, svuotata e spiegata anche con me stessa. E chissà che riesca finalmente a scrivere qualcosa di quaggiù!!!!!


Vado a ballare…






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